venerdì 30 maggio 2008

Aritmie cardiache


Che cosa sono
Le alterazioni della normale sequenza dei battiti cardiaci vengono dette aritmie.Quando si osserva un aumento anomalo dei battiti si parla di tachiaritmie o tachicardie. Se al contrario si ha una diminuzione anomala del numero dei battiti si parla di bradiaritmie o bradicardie.In entrambi i casi ci si trova di fronte ad una alterazione del normale funzionamento dei circuiti elettrici del cuore, che servono a veicolare lo stimolo elettrico che determina la contrazione del muscolo cardiaco.In condizioni normali tale stimolo ha origine in una "centralina" chiamata nodo del seno e collocata negli atri, che sono la parte superiore del cuore.Dal nodo del seno lo stimolo elettrico viene veicolato verso il basso sino alla parte inferiore del cuore, i ventricoli.Per arrivare ai ventricoli lo stimolo elettrico deve transitare attraverso una sorta di "cancello", posto tra gli atri ed i ventricoli, chiamato nodo atrio-ventricolare.Una volta giunto ai ventricoli e attivata la contrazione del muscolo cardiaco lo stimolo elettrico si estingue.Quando lo stimolo elettrico origina da "centraline" anomale, diverse dal nodo del seno, viene chiamato extrasistole, oppure quando non si estingue ma continua ad essere veicolato all'interno del cuore, abbiamo le tachicardie, che vengono dette sopraventricolari o ventricolari a seconda della parte del cuore in cui si localizzano.Quando lo stimolo elettrico ha difficoltà ad avere origine dal nodo del seno oppure a transitare attraverso il nodo atrio-ventricolare per giungere ai ventricoli, si parla di blocco della conduzione cardiaca ( senoatriale, atrioventricolare, intraventricolare o di branca) con possibile evoluzione verso le bradicardie.
Come si presentano: i sintomi
La forma più semplice di tachiaritmia, la extrasistole, può non essere minimamente apprezzata oppure manifestarsi come sensazione di irregolarità del battito cardiaco, talora associata alla percezione di un senso di "vuoto", come se per un momento il cuore si fermasse.Le tachicardie si manifestano con una chiara sensazione di marcato aumento del numero dei battiti cardiaci, che si possono succedere in modo regolare o irregolare. Quando la frequenza cardiaca è molto alta ci possono essere senso di schiacciamento al petto, mancanza di respiro, sudorazione, spossatezza, vertigini. Nelle forme più gravi si può arrivare alla perdita di coscienza.Nelle bradicardie si possono avere senso di affaticamento, ridotta tolleranza agli sforzi, vertigini, ed anche in questo caso, nelle forme più gravi, si può arrivare alla perdita di coscienza.
Il loro significato: quando preoccuparsi
Non sempre il riscontro di una aritmia cardiaca è da considerarsi espressione di una malattia del cuore.Extrasistoli possono normalmente comparire in persone sane, la febbre o lo sforzo fisico possono dare tachicardie, l'allenamento sportivo può dare bradicardie.Le aritmie inoltre possono originare da qualsiasi malattia del cuore ed anche da alcune malattie sistemiche come ad esempio le disfunzioni della ghiandola tiroide.La comparsa di una aritmia cardiaca deve pertanto essere sempre considerata con attenzione. Particolare cura va riservata alle extrasistoli frequenti e disturbanti, alle tachicardie contraddistinte da un inizio ed una fine improvvise, alle bradicardie di recente comparsa in persone anziane, alle aritmie in persone che hanno avuto improvvise perdite di coscienza.
Come si fa la diagnosi
Il primo esame da eseguire in una persona che abbia disturbi che fanno sospettare un’aritmia è l’elettrocardiogramma (ECG).Molto spesso questa metodica è già sufficiente a fornire informazioni su natura e gravità dell'aritmia.E’ però possibile che l’ECG, in particolare se effettuato in assenza di disturbi, non dia informazioni adeguate.In questo caso le indagini vanno approfondite effettuando un elettrocardiogramma dinamico ( Holter ): elettrocardiogramma che viene eseguito mediante un registratore a cassetta collegato al paziente con elettrodi adesivi. Esso consente di seguire l'andamento del ritmo cardiaco durante le varie attività svolte dal paziente durante la giornata e durante la notte (24 ore), permettendo di raccogliere informazioni molto dettagliate su natura e caratteristiche degli eventuali disturbi del ritmo cardiaco.In alcuni casi un ulteriore approfondimento può essere ottenuto attraverso l’esecuzione di esami che favoriscano la comparsa di aritmie, permettendone una precisa identificazione.Questi esami suppletivi vengono detti tests provocativi e comprendono: - prova da sforzo al cicloergometro: permette di seguire il ritmo cardiaco durante le sollecitazioni indotte da uno sforzo massimale su una bicicletta;- studio elettrofisiologico transesofageo:: una metodica molto semplice che attraverso un piccolo catetere con elettrodi posizionato in esofago consente di registrare l'attività elettrica del cuore e di verificare la risposta del cuore alla stimolazione elettrica;- studio elettrofisiologico endocavitario: ha le stesse finalità dell'esame precedente ma è più complesso e più accurato poichè il catetere viene collocato all'interno del cuore;- tests farmacologici: prevedono la somministrazione di farmaci in grado di influenzare il ritmo del cuore in modo da verificare la presenza di risposte anormali.Accanto a questi esami atti ad identificare le caratteristiche e la natura dell’aritmia vanno poi eseguite indagini mirate ad ricercare eventuali malattie del cuore o sistemiche, causa delle aritmie osservate.
Le cure
Di norma le aritmie non disturbanti nelle quali non sia stata riconosciuta la presenza di una malattia di cuore o sistemica non necessitano di alcun trattamento.Qualora invece sia stata identificata la presenza di una malattia di cuore o sistemica è opportuno, prima di intervenire direttamente sull’aritmia, tentare, quando possibile, di curare la malattia che produce l’aritmia.Molto spesso infatti aritmie cardiache che si manifestano in corso di ipertensione arteriosa, ischemia cardiaca, cardiomiopatie, disturbi della tiroide o dell'apparato digerente, migliorano o addirittura scompaiono una volta risolti questi quadri patologici.Esiste d'altra parte tutta una serie di condizioni nelle quali si rende invece opportuno un intervento curativo diretto sulla aritmia.
Extrasistoli
Quando non sia stato possibile identificare la presenza di una malattia sottostante queste aritmie sono da considerarsi assolutamente benigne. Tuttavia esse possono essere così frequenti da risultare comunque non tollerate. In questi casi un primo intervento curativo avviene con farmaci blandamente sedativi. Se questi risultano inefficaci si passa all'utilizzo dei farmaci antiaritmici. E’ questa una categoria di farmaci molto potenti: se utilizzati in modo improprio possono comportare effetti collaterali anche gravi. Il loro impiego va riservato ai casi in cui ve ne sia una reale necessità e durante il loro uso è fondamentale un assiduo controllo del loro effetto.
Tachicardie sopraventricolari
Raramente sono legate a malattie concomitanti. La loro cura si avvale pertanto di un intervento diretto, con il duplice scopo di interromperle una volta che si siano manifestate e di impedirne la ricomparsa.Il primo obiettivo viene perseguito con la somministrazione di farmaci antiaritmici o con la esecuzione di particolari manovre quali l’immersione del volto in acqua gelata o la contrazione dell'addome a bocca chiusa.Nei casi particolarmente resistenti può essere necessario interrompere l’aritmia, mediante stimoli elettrici. Per evitare la ricomparsa di queste aritmie si ricorre di norma alla somministrazione di farmaci antiaritmici.Negli ultimi tempi, anche in considerazione della frequente giovane età delle persone affette da tali aritmie e dei problemi conseguentemente legati all’assunzione cronica di una terapia antiritmica, sono state perfezionate metodiche di risoluzione talvolta definitiva dell’aritmia.Mediante l'invio di energia termica attraverso cateteri endocavitari si cerca di eliminare i circuiti elettrici anomali che rendono possibile l'instaurarsi dell’aritmia. Con il passare degli anni questa metodica è risulta sempre più efficace e sempre meno gravata da complicanze rappresentando quindi l'evoluzione futura per il trattamento di questo tipo di aritmie.
Tachicardie ventricolari
Sono quasi sempre associate a malattie cardiache che ne hanno determinato la comparsa.Per la loro cura, oltre a cercare di trattare quando possibile la malattia sottostante, ci si avvale in prima istanza dei farmaci antiaritmici.Esistono purtroppo dei casi nei quali i farmaci, non sono in grado di controllare l’aritmia. Negli ultimi tempi è stata perfezionata una metodica che prevede il posizionamento definitivo di cateteri elettrici all'interno del cuore, collegati ad un piccolo computer, collocato sotto la pelle all'altezza della spalla, in grado di riconoscere la comparsa di queste aritmie e di inviare stimoli elettrici in grado di interromperle.
Bradicardie
Normalmente la cura è rappresentata dall'impianto di uno stimolatore cardiaco, o pacemaker, che si sostituisce ai circuiti e alle centraline cardiache rivelatesi insufficienti. Dai primi stimolatori di trent'anni fa che richiedevano uno zaino per essere contenuti e potevano inviare stimoli secondo un’unica frequenza, si è passati a quelli attuali, di dimensioni tali da poter essere contenuti in una scatola di fiammiferi ed in grado di variare la frequenza cardiaca secondo i bisogni del paziente.Essi vengono facilmente collocati in una piccola tasca ricavata nella pelle, solitamente sotto la spalla. Uno o due fili elettrici collegano lo stimolatore con la cavità del cuore e veicolano gli stimoli elettrici da esso inviati.L'intervento è ormai molto semplice, comporta bassissimi rischi, e non richiede anestesia generale.
I controlli dopo la cura
Quando per la cura dell’aritmia sia stato scelto un trattamento farmacologico è opportuno che il paziente si sottoponga a controlli periodici al fine di riconoscere tempestivamente la comparsa di eventuali effetti collaterali. E' inoltre utile la saltuaria ripetizione di elettrocardiogrammi dinamici per verificare l’efficacia della cura.Questa seconda indicazione è valida anche per quei casi in cui si sia preferito un trattamento non farmacologico mediante intervento cardiochirurgico o endocavitario.Per quanto riguarda infine i pacemaker va sottolineata l’estrema importanza di periodici controlli della carica dello stimolatore, effettuabile mediante appositi misuratori, al fine di riconoscere il momento, normalmente da 5 a 15 anni dopo l'impianto, in cui esso va sostituito.
Effetti collaterali e complicanze dei trattamenti
Per quanto riguarda le cure farmacologiche, a seconda del tipo di farmaco usato si possono avere: abbassamenti eccessivi della pressione arteriosa, bradicardie, alterazioni a livello polmonare, epatico e delle vie urinarie.Ancora ci possono essere tremori, vertigini, modificazioni della funzione tiroidea, alterazioni della sensibilità della pelle alla luce.Sono state descritte infine variazioni a livello dei globuli rossi e bianchi.Gli interventi cardiochirurgici o endocavitari per il trattamento delle tachicardie, comportano oggigiorno una mortalità perioperatoria molto bassa.L'impianto dei pacemaker e dei defibrillatori può raramente associarsi a infezioni della tasca cutanea in cui viene collocato l’apparecchio.Sporadicamente difetti di funzionamento nei primi giorni dopo l'intervento possono richiedere il riposizionamento del pacemaker.A volte si può osservare la comparsa di vertigini, mancanza di respiro, senso di peso al giugulo. E' il quadro definito come sindrome da pacemaker, legato ad una non perfetta tolleranza del cuore alla stimolazione artificiale.
A chi rivolgersi
Una diagnosi accurata e soprattutto un’adeguata impostazione terapeutica sono di norma prerogativa dello specialista cardiologo.Per gli interventi non farmacologici è opportuno rivolgersi ai centri specializzati in aritmologia.
Fonte: Cardiologia , Policlinico San Pietro, Ponte San Pietro, Bergamo

Golosoni di tutto il mondo unitevi... contro il PYY

Se non si riesce a dire no al dolce anche quando si è sazi non è solo perché si è irrimediabilmente golosi: è anche perché si hanno bassi livelli di PYY, una proteina segnale prodotta dall'intestino che trasmette all'area corticolimbica del cervello il segnale di sazietà. Lo ha dimostrato una ricerca condotta allo University College di Londra dalla ricercatrice Rachel Batterham e pubblicata sull'ultimo numero della rivista Nature.
La ricerca è stata condotta su volontari a cui è stato offerto un buffet in cui potevano mangiare tutto ciò che volevano e a volontà, il sogno di molti. I ricercatori hanno misurato i livelli di PYY dei partecipanti allo studio e, dopo l'abbuffata, hanno anche visualizzato, attraverso la risonanza magnetica funzionale, quali aree del cervello erano metabolicamente più attive. Hanno così scoperto che tra coloro che hanno mangiato di più era molto alta la percentuale di soggetti con basse concentrazioni di PYY; l'attività metabolica cerebrale del centro della sazietà in questi soggetti era più bassa, a dimostrazione del fatto che essi continuavano a mangiare perché non in grado di sentirsi soddisfatti.
In una seconda fase dell'esperimento ai volontari è stato offerto un secondo buffet, ma prima è stato loro somministrato il PYY per via intravenosa. In questo caso i partecipanti allo studio, anche i più golosi, hanno mangiato meno e il loro centro di sazietà, da analisi con risonanza magnetica funzionale, era molto più attivo. "Questo studio dimostra che una ridotta produzione di PYY può essere una concausa del sovrappeso e dell'obesità perché altera il segnale di sazietà che il cervello riceve", ha dicharato la Batterham.

Fonte: Batterham R et al. PYY modulation of cortical and hypothalamic brain areas predicts feeding behaviour in humans. Nature. 2007 [Epub ahead of print]

Qual'è il ruolo della ecografia e della TAC nella diagnosi di appendicite




L'ecografia e l'esame obiettivo associati sono in grado di diagnosticare l'appendicite acuta nella maggior parte dei casi.La combinazione di esame obiettivo ed ecografia è in grado di stabilire la diagnosi di appendicite acuta. I pazienti con bassa-moderata probabilità ed ecografia negativa hanno meno dell’1% di avere un’appendicite acuta. Ma anche nei pazienti con alta probabilità l’ecografia può aiutare ad evitare il ricorso di interventi inutili e dannosi nel 35% dei pazienti che non hanno un’appendicite acuta. (livello di evidenza 1b) In uno studio di coorte e prospettico [1] 350 pazienti con sospetta appendicite furono valutati da chirurghi esperti con esame obiettivo ed esami di laboratorio, esami ematici di base, temperatura, VES, PCR ed esame urine. I pazienti vennero divisi in base alla probabilità di avere o no un’appendicite in bassa-moderata o alta probabilità. Trovarono 11/109 (10%) nel gruppo a bassa probabilità, 23/97 (24%) nel gruppo a probabilità moderata e 94/144 (65%) nel gruppo a probabilità alta. Ciascun paziente veniva sottoposto ad un esame ecografico ed il radiologo non conosceva il risultato dell’esame obiettivo e dei test di laboratorio, ma conosceva i sintomi dei pazienti. Le ecografie dubbie venivano considerate come negative e queste erano comuni nei pazienti del gruppo a bassa probabilità (17%) che in quelli ad alta probabilità (3%). La diagnosi finale veniva stabilita sulla base dell’intervento chirurgico per 154 pazienti e dal follow-up clinico per 196 pazienti. Il 10% delle appendicectomie erano normali. Una TAC elicoidale era fatta per 24 pazienti su 36 con ecografia dubbia. L’ecografia aveva una sensibilità del 98% e una specificità del 98%, valore predittivo positivo del 96% e valore predittivo negativo del 99%, likelihood ratio positivo = 49 e likelihood ratio negativo = 0.02. Il valore predittivo negativo per una ecografia negativa nel gruppo a bassa-moderata probabilità era del 99.6% e per il solo gruppo a bassa probabilità era del 99.8%. In un altro studio [2] randomizzato 89 pazienti con sintomi atipici di appendicite, mancanza di uno o più dei classici segni, furono randomizzati ad effettuare una TAC senza mdc o una ecografia come test iniziale. In totale 49 pazienti vennero inclusi nel gruppo con TAC e 40 all’ecografia come test iniziale. Nel gruppo di pazienti assegnati alla ecografia 5 erano interpretati come negativi, 24 come positivi e 11 non diagnostici. Dei 16 pazienti risultati negativi o non diagnostici alla TAC, 7 furono operati di appendicectomia. 23 dei 24 pazienti positivi alla ecografia avevano una appendicite acuta risultando in una sensibilità del 76% e una specificità del 90%. Nei 49 pazienti che effettuarono la TAC, 10 erano interpretati come negativi e 39 erano interpretati come positivi per patologia intraaddominale (37 di questi avevano una appendicite e 2 avevano un Crohn e un ascesso tubarico) risultando in una sensibilità del 87% e una specificità del 100%. Il valore positivo della TAC vs ecografia era del 100% vs 96%, mentre il valore predittivo negativo era del 92% vs 56%. (livello di evidenza 2b)
Clementino Stefanetti
Referenze1. Rettenbacher T et al. Appendicitis: Should diagnostic imaging be performed if the clinical presentation is highly suggestive of the disease? Gastroenterology 2002; 123:992-98. 2. Horton MD et al. A prospective trial of computed tomography and ultrasonography for diagnosing appendicitis in the atypical patient. Am J Surg 2000;179:379-81. 3. Terasawa T. Systematic review: computed tomography and ultrasonography to detect acute appendicitis in adults and adolescents. Ann Intern Med. 2004 Oct 5;141(7):537-46.

Appendicite: chirurgia sempre e comunque?

L'appendicectomia è un intervento chirurgico che viene indicato anche quando la diagnosi non è certa. Non sempre, infatti, gli esami del sangue o l'ecografia riescono ad individuare in maniera chiara l'infiammazione dell'appendice. Sull'ultimo numero della rivista Archives of Surgery un editoriale di commento dedica spazio ad una riflessione: quanti interventi oggi, con l'ausilio delle nuove tecniche diagnostiche come la tomografia computerizzata, si potrebbero evitare senza alcun danno per i pazienti?
La risposta non è banale. Soprattutto se essa deve tener conto di più fattori quali la salute del paziente, l'appropriatezza della cura, i costi per il sistema sanitario. Secondo quanto sostengono gli autori del commento la diagnosi può essere sbagliata in una percentuale che varia tra il 15 e il 25 per cento dei casi, soprattutto nei bambini e nelle donne. Tuttavia un intervento mancato può mettere in serio pericolo la vita del paziente. L'introduzione di tecniche diagnostiche di imaging non ha stravolto la pratica medica: mentre 10 anni fa si riteneva che la CT avrebbe diagnosticato i casi di appendice infiammata con il 100 per cento dell'accuratezza, con il tempo si è verificato che anche questo tipo di analisi vanno lette accuratamente e correttamente interpretate. Del resto non sono rari i casi nella pratica clinica in cui, grazie alla terapia con antibiotici, il quadro clinico del paziente migliora rendendo non più necessario il trattamento chirurgico.
Ancora una volta, nonostante il miglioramento delle tecniche diagnostiche a disposizione, la discrezionalità del medico e la capacità di comprendere quando e come intervenire rimangono fondamentali nella pratica clinica.

Bibliografia. Fujita T et al. Appendectomy: negative appendectomy no longer ignored. Arch Surg 2007; 142(11):1023-25.

Appendicite: diagnosi nei bambini

Diagnosticare l'appendicite in pazienti pediatrici è particolarmente difficile. Una revisione sistematica pubblicata sull'ultimo numero della rivista Journal of the American Medical Association descrive alcuni casi clinici paradigmatici davanti a cui un medico si può trovare. La revisione sistematica condotta dal gruppo dei ricercatori della Johns Hopkins University ha dimostrato che due sono i dati a cui un medico deve fare maggiore attenzione in caso si trovi davanti ad un bambino con dolori addominali: la presenza di febbre e il numero di globuli bianchi (se inferiore a 1000/ul). Questi due parametri permettono di distinguere immediatamente i casi urgenti. A questa prima fase di riconoscimento poi faranno seguito delle indagini di imaging più accurate prima di procedere con la chirurgia. Le indicazioni cliniche raccolte nelle varie pubblicazioni circa i pazienti che giungono in ospedale con dolori addominali possono essere molto utili ai medici per capire quali potrebbero essere i pazienti pediatrici che hanno realmente bisogno della chirurgia e quali possono essere trattati in altro modo.
Bibliografia: Bundy DG et al. Does this child have appendicitis? JAMA 2007; 298;438-51.

L'appendicite pediatrica si diagnostica con i numeri



Un sistema a punteggio di facile determinazione permette un buon orientamento diagnostico per escludere o confermare l'appendicite acuta nei bambini.E' possibile migliorare la nostra capacità diagnostica nell'appendicite acuta pediatrica? Per un periodo di 5 anni sono stati valutati i segni clinici di 1.170 bambini (età 4-15 anni) con dolore suggestivo di appendicite. I bambini furono suddivisi in due gruppi: gruppo 1 (734 bambini, appendicite presente) e gruppo 2 (436 bambini, appendicite assente). Sono state poi valutate otto variabili:
1) migrazione del dolore
2) anoressia
3) nausea o vomito
4) lecocitosi (GB > 10.000)
5) aumento dei polimorfonucleati neutrofili
6) dolorabilita' del quadrante addominale inferiore destro
7) dolorabilita' che aumenta col salto, la tosse o la percussione
8) febbre
Ad ogni variabile si assegna 1 punto; viene assegnato 1 punto ciascuno per dolorabilita' che aumenta con tosse, percussione o salto, arrivando ad un totale di 10 punti.
I pazienti del gruppo 1 avevano una media di 9,1 punti e quelli del gruppo 2 una media di 3,1.
Se si usa una soglia discriminante di 5 punti per escludere l'appendicite si sarebbero evitate complicanze come la perforazione al prezzo di operare 19 bambini inutilmente.
Con un punteggio di 6 si può dire che la diagnosi di appendice è probabile, mentre per 7-10 punti la probabilita' può ritenersi elevata .
In alcuni casi puo' essere utile rivedere e rivalutare lo score a distanza di qualche ora.
Il sistema non è stato validato per bambini inferiori ai 4 anni, nei quali, purtroppo, la diagnosi può essere spesso difficile.
Per il medico di famiglia questo studio è interessante perchè ben 6 degli 8 punti sono facilmente valutabili senza ricorrere ad esami di laboratorio e permettono già un buon orientamento diagnostico.
Curioso che non sia stato considerato il "dolore addominale di rimbalzo" perchè ritenuto troppo doloroso per il bambino.
Renato Rossi

Fonte:Samuel M. Pediatric appendicitis score. J Pediatr Surg 2002 Jun; 37:877-81

Appendicite



L'appendicite è l'infiammazione dell'appendice vermiforme, un piccolo tratto di intestino così denominato perché ha la forma e le dimensioni di un verme (lunghezza 7-10 cm). L'appendice, posta in basso e a destra nella cavità addominale, è attaccata e comunica con il cieco, che è la parte iniziale del grosso intestino o intestino crasso. L'appendice non sembra avere alcuna funzione nell'uomo, né sono chiare le cause della sua infiammazione: si ritiene che l'ostruzione della sua piccola cavità, di solito determinata da residui di cibo o da feci, favorisca la crescita di batteri e la successiva infezione.
L'appendicite è tra le più frequenti emergenze chirurgiche e si manifesta con un'incidenza maggiore nei giovani tra i 10 e i 30 anni; la malattia è invece rara nei bambini prima dei 5 anni e negli adulti oltre i 50 anni, ma proprio in questi soggetti può dare sintomi meno caratteristici e più lievi, che possono rendere più difficile la diagnosi.
SintomiIl sintomo principale dell'appendicite acuta è un dolore improvviso che spesso, ma non sempre, inizia al centro dell'addome (intorno all'ombelico) e che nelle 12-24 ore successive si sposta in basso a destra, nel punto che corrisponde in profondità all'appendice, cioè tra l'ombelico e l'osso dell'anca (punto di McBurney). Col passare delle ore il dolore diviene sempre più intenso, continuo e aumenta con i movimenti - basta uno starnuto o un colpo di tosse - tanto che si è costretti a restare fermi, a letto, spesso con le cosce flesse sull'addome, posizione che allevia in parte la sintomatologia dolorosa.
Oltre al dolore, possono comparire:
· perdita dell'appetito;
· nausea;
· talora vomito e stipsi (ma può esservi diarrea!);
· spesso febbre, che di solito non supera i 38-38,3 °C.
Se l'appendice è molto lunga o non è nella posizione usuale, il dolore può localizzarsi in sedi diverse (per esempio, più in alto verso il torace o più in basso verso la coscia destra); anche in questi casi la diagnosi è più difficile, come del resto nella donna in gravidanza la cui appendice viene spostata in alto dall'ingrossamento dell'utero.
In presenza dei sintomi descritti è opportuno contattare al più presto un medico per un'appropriata valutazione del quadro clinico. Nel frattempo è meglio non assumere farmaci contro il dolore (analgesici e spasmolitici) ed evitare i rimedi tradizionali (come la borsa d'acqua calda), che potrebbero risultare controproducenti. Da evitare assolutamente anche i lassativi e i clisteri.
Particolare attenzione va posta ad un persistente mal di pancia nei bambini e i genitori devono sapere che nei più piccoli l'appendicite infiammata può dare un dolore non molto forte e perforarsi più facilmente che negli adulti.
A cura del Dipartimento di Scienze Chirurgiche dell'università La Sapienza, Roma




Nuovo device per appendicectomia

E' stato presentato un nuovo dispositivo che consente di implementare una tecnica innovativa per l’appendicectomia. La particolarità della nuova tecnica consiste nell’utilizzare come accesso per l’intervento l’orifizio naturale del colon.

Il dispositivo infatti è costituito da un colonscopio standard, il quale è dotato in prossimità della punta, di un sistema di grippin, che consente di agganciare ed invertire sia l’appendicite che l’arteria che la irrora (AID appendoectomy inverter device).
In particolare grazie all’ottica del colonscopio viene dapprima individuato l’orifizio della appendicite, successivamente viene inserito il device al suo interno, attraverso una guida (ed un sistema che permette di tenere dilatato l’orifizio).

L’appendicite viene dapprima pulita e disinfettata utilizzano un catetere di irrigazione. Segue la fase di inversione e legatura (chiusura) della appendicite, nonché dell’arteria; l’ultima fase è quella della rimozione attraverso il canale del vuoto. Il device ha già ricevuto il marchio CE nella Comunità Europea.

Non tutte le appendiciti possono essere curate con questa tecnica, ma solo quelle che hanno una infiammazione limitata ed un basso numero di adesioni. Ad ogni modo la metodologia è nel suo primo stadio di sviluppo, notevoli miglioramenti sono attesi dai device di nuova generazione già in fase di studio.

Fonte: www.medgadget.com, Posted on January 15, 2008

Non ritardare l'appendicectomia negli adulti

Secondo uno studio retrospettivo le complicanze dell'appendictomia sono tanto più frequenti quanto più tempo trascorre dall'inizio dei sintomi.In questo studio sono state riviste le cartelle cliniche di 1081 adulti appendicectomizzati per appendicite acuta, per determinare il tempo intercorso tra l'inizio dei sintomi e l'arrivo in ospedale e quello tra l'arrivo in ospedale e l'intervento chirurgico. Si è così visto che più tempo passa dall'inizio dei sintomi a quando il pazientie viene operato e più aumenta il rischio di complicanze (perforazioni, ascessi, flemmoni, appendicite gangrenosa). Per esempio il rischio di trovarsi davanti ad una malattia in fase avanzata risultava essere 13 volte maggiore per intervalli > 71 ore che per intervalli < 12 ore. Gli autori concludono che negli adulti il rischio di malattia avanzata e di complicanze post-operatorie aumenta con il tempo trascorso dall'inizio dei sintomi per cui non è sicuro ritardare l'intervento. Tuttavia siccome questi dati derivano da uno studio retrospettivo essi auspicano uno studio prospettico per confermarne la validità.

Fonte:Ditillo MF et al. Is it safe to delay appendectomy in adults with acute appendicitis? Ann Surg 2006 Nov; 244:656-60.

Commento di Renato Rossi

Questo studio contrasta con un lavoro dallo stessso disegno retrospettivo [1], ma di casistica più limitata (poco più di 300 soggetti), in cui si evidenziava che, nei pazienti adulti clinicamente stabili, ritardare l'appendicectomia di 12 ore non portava a conseguenze negative. E' difficile spiegare la differenza trovata nei due lavori (potrebbe trattarsi di una coorte differente di pazienti), il che dimostra che gli studi retrospettivi eseguiti sull'esame delle cartelle cliniche forniscono risultati che vanno valutati con molta cautela. D'altra parte studi precedenti hanno fornito risultati in parte controversi. Per esempio in uno studio osservazionale su 486 pazienti [2] è stato visto che il ritardo legato al paziente aumentava le complicanze infettive e la durata del ricovero mentre il ritardo legato al chirurgo sembra non influire sullo stadio della malattia, per cui gli autori concludevano che la decisione di tenere sotto osservazione il paziente per chiarire la diagnosi può essere giustificata. In un altro studio su 114 pazienti [3] si evidenziava che il ritardo (quasi sempre legato al paziente) aumentava la morbidità. Per contro, in uno studio su 126 bambini con appendicite acuta [4] dilazionare l'intervento dalla notte al mattino sucessivo non aumentava le complicazioni.Dal canto nostro, alla luce di questi nuovi dati, ci sembra che sia da rivedere quanto scrivemmo in una precedente pillola di commento [1]: nell'incertezza è preferibile non ritardare l'intervento, soprattutto se sono trascorse molte ore dall'inizio dei sintomi. In quell'occasione facevamo però notare che:1) i due gruppi considerati nello studio potevano non essere paragonabili, pertanto anche se gli autori avevano trovato che non vi erano differenze per alcuni fattori che influenzano la prognosi come l'età, il numero di leucociti e la temperatura corporea, è possibile che non tutte le variabili fossero state considerate, per cui i pazienti operati più tardi erano in realtà quelli con quadro clinico meno grave2) la casistica presa in esame era abbastanza limitata e non in grado di svelare piccole differenze di esiti.Insomma, in medicina il dato conclusivo non esiste quasi mai, a maggior ragione se deriva da studi dal disegno osservazionale.

Referenze1. Abou-Nukta F et al. Effects of delaying appendectomy for acute appendicitis for 12 to 24 hours. Arch Surg 2006 May; 141:504-7.
Vedi: http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=25702. Eldar S et al. Delay of surgery in acute appendicitis. Am J Surg. 1997 Mar;173(3):194-83. Maroju NK et al. Delay in surgery for acute appendicitis. ANZ J Surg. 2004 Sep;74(9):773-6.4. Yardeni D et al. Delayed versus immediate surgery in acute appendicitis: do we need to operate during the night? J Pediatr Surg. 2004 Mar;39(3):464-9

giovedì 29 maggio 2008

Anziani, un'attenzione particolare a tavola

Le persone intorno ai 70 anni o più hanno particolari esigenze alimentari e non è consigliabile che mantengano lo stesso regime alimentare che hanno avuto nel corso degli anni. Per questo i ricercatori della Tufts University hanno rinnovato la piramide alimentare per le persone anziane, sottolineando l'importanza di alcuni alimenti e di alcune abitudini. È necessario, ad esempio, un minore apporto calorico sia a causa di una minore attività fisica praticata sia a causa di un metabolismo rallentato. Questo però non significa che debbano mancare alcuni nutrienti. Queste sono le categorie di alimenti che gli anziani devono prediligere: cereali integrali e non raffinati, frutta intera e verdura per garantire il giusto apporto di fibre, frutta di colore scuro e verdura di vari colori per il corretto apporto di vitamine e sali minerali, latticini magri, proteine possibilmente vegetali o, se animali, derivate da pesce e carni bianche, olio di oliva. Predisporre riserve cotte in precedenza e poi congelate favorisce la corretta alimentazione facilitando agli anziani la preparazione del pasto. Inoltre, con l'età la sensazione di sete si affievolisce e non rappresenta più un corretto segnale dello stato di idratazione del corpo. È quindi importante ingerire alimenti ricchi in acqua e bere spesso anche se non se ne sente il desiderio. Calcio e alcune vitamine come le vitamine B12 e la vitamina D sono scarse nelle persone anziane e devono essere reintegrate con supporti anche non alimentari. Infine è sempre fondamentale mantenere un certo livello di esercizio fisico: passeggiare, fare i lavori di casa o curarsi del giardino. Una regolare attività fisica riduce il rischio di malattie croniche e cardiovascolari e soprattutto previene l'aumento di peso. Una corretta alimentazione, buone abitudini e ottima compagnia permettono di essere, sì anziani, ma anche sufficientemente in forma.

Una dieta ricca di antiossidanti: preziosi alleati della salute del cuore

I cibi ricchi di flavonoidi aiutano a proteggersi da infarto, problemi cardiovascolari e ictus. E’ quanto hanno osservato i ricercatori dell’azienda Exponent che hanno analizzato il collegamento tra l’assunzione di cibi ricchi di flavonoidi – sostanze antiossidanti contenute in gran quantità soprattutto nell’uva rossa, nel vino, nel cioccolato fondente, e in frutti come mele, pere e pompelmi – e il rischio cardiovascolare in un periodo lungo sedici anni.I ricercatori americani hanno utilizzato tre database del Ministero dell’Agricoltura statunitense per calcolare la quantità di flavonoidi contenuta in alcuni alimenti e hanno incrociato questi dati con quelli relativi alla dieta abituale di 34.489 donne in post menopausa che avevano partecipato a Women's Health Study nell’Iowa. Questi sono stati i risultati: tre sottoclassi dei flavonoidi – le antocianidine, flavanoni, flavoni – sarebbero collegate ad una significativa riduzione del rischio cardiaco, in particolare a una riduzione del 10% del rischio per le antocianidine e del 22% per i flavononi. Pamela J. Mink, responsabile della ricerca, ha spiegato sull’American Journal of Clinical Nutrition che alcuni specifici alimenti erano collegabili con una precisa azione benefica: ad esempio, mele, pere e vino rosso abbasserebbero il rischio di disturbi cardiovascolari e problemi alle coronarie; il pompelmo proteggerebbe la salute delle arterie coronarie e le fragole e il cioccolato sarebbe collegato ad un generale abbassamento del rischio cardiovascolare.I flavonidi sono noti per la loro azione antiossidante, che riduce le infiammazioni, i livelli di densità di lipoproteine e di colesterolo cattivo. Gli antiossidanti sono spesso indagati dalle ricerche scientifiche per i loro effetti benefici. A dimostrazione dell’importanza della scelta di assumere regolarmente alimenti salutari e ricchi di antiossidanti arriva dalla Rutgers University di Piscataway, nel New Jersey, una nuova ricerca in tal senso. Gli scienziati coordinati da Bandaru Reddy hanno, infatti, osservato la capacità dello pterostilbene, antiossidante contenuto in abbondanza nei mirtilli, nel ridurre il cancro al colon-retto. Gli studiosi hanno somministrato 40mg di pterostilbene ad alcuni topi con tumore al colon-retto e hanno comparato i suoi effetti con topi di controllo. Al termine dello studio i nove animali che avevano ricevuto gli integratori di pterostilbene mostravano una riduzione del 57% di formazioni pre-cancerose rispetto ai topi che avevano seguito solo una normale dieta. Sembra che il pterostilbene sia in grado anche di bloccare la crescita e la replicazione cellulare nel colon e inibisce l’azione di alcuni geni coinvolti nell’infiammazione.

Brusco cambiamento di rotta sugli antiossidanti

La notizia. Integrare la normale dieta con supplementi di vitamina A, E, C, di betacarotene e di selenio al fine di prevenire alcune forme tumorali, l’invecchiamento e la comparsa di malattie neurodegenerative potrebbe non essere così salutare come si è pensato sino ad oggi. Un gruppo di ricercatori danesi ha condotto una metanalisi su 68 studi clinici randomizzati relativi ad interventi di prevenzione primaria e secondaria riguardanti gli antiossidanti e ha verificato il tasso di mortalità registrato in questi trial; il campione analizzato ha incluso circa 230 mila individui. La revisione è stata pubblicata sull'ultimo numero del Journal of the American Medical Association.La revisione. Secondo i dati ottenuti dalla metanalisi non vi sarebbero evidenze scientifiche a conferma del fatto che un’integrazione di vitamina C aumenti la longevità né che abbia effetti negativi sull’organismo; anche l’assunzione di selenio sembra non portare alcun effetto. Al contrario, l’integrazione di vitamine A ed E sembra legata ad un aumento del rischio di mortalità all'interno del campione considerato. Quella dei ricercatori danesi è una delle prime revisioni pubblicate sugli antiossidanti che si pone fuori dal coro. Oggi una quota tra il 10 e il 20 per cento della popolazione adulta nei paesi sviluppati fa uso di integratori; per il proverbiale gioco del "nasce prima l’uovo o la gallina" è difficile dire se il grande numero di lavori scientifici pubblicati negli ultimi anni sull’argomento abbia creato il mercato degli integratori o se, viceversa, la possibilità di un florido mercato in continua espansione abbia determinato la necessità di verificare anche scientificamente l’utilità dei supplementi alimentari. Sta di fatto che, come si legge nell’articolo originale, dei numerosi studi pubblicati sull’argomento molti supportano la tesi secondo cui, come strategia preventiva, sia una buona abitudine usare gli integratori (ma non abusarne); tuttavia la maggior parte di questi studi non ha una metodologia adeguata. A questo si deve aggiungere che vi sono numerosi trial che vengono interrotti o lavori conclusi ma non pubblicati perché si sono ottenuti dei risultati negativi. La metanalisi condotta non chiarisce quali siano i motivi per cui l’assunzione di integratori aumenterebbe il rischio di mortalità, stimato intorno al cinque per cento, sul campione considerato. Si avanza l’ipotesi che eliminando i radicali liberi dall’organismo si interferisca con alcuni meccanismi cellulari di difesa come l’apoptosi, la fagocitosi e la detossificazione.
Bibliografia. Bjelakovic G et al. Mortality in randomized trials of antioxidant supplements for primary and secondary prevention. JAMA 2007;297:842-57.

Antidepressivi e rischio di suicidio: nuove avvertenze e precauzioni d'uso

L’Agenzia Italiana del Farmaco, con Determinazione del 9 luglio 2007, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 163 del 16 luglio 2007, impone la modifica dei foglietti illustrativi degli antidepressivi a causa dell’aumento del rischio di comportamento suicidario nelle fasi iniziali della terapia e nei pazienti di età inferiore ai 25 anni.
La depressione e' associata ad aumentato rischio di pensieri suicidari, autolesionismo e suicidio (suicidio/eventi correlati). Tale rischio persiste fino a che si verifichi una remissione significativa. Poiche' possono non verificarsi miglioramenti durante le prime settimane di trattamento o in quelle immediatamente successive, i pazienti devono essere attentamente controllati fino ad avvenuto miglioramento. E' esperienza clinica in generale che il rischio di suicidio puo' aumentare nelle prime fasi del miglioramento.Altre patologie psichiatriche per le quali un antidepressivo e' prescritto possono anche essere associate ad un aumentato rischio di comportamento suicidario. Inoltre, queste patologie possono essere associate al disturbo depressivo maggiore. Quando si trattano pazienti con disturbi depressivi maggiori si devono, pertanto, osservare le stesse precauzioni seguite durante il trattamento di pazienti con altre patologie psichiatriche.Pazienti con anamnesi positiva per comportamento o pensieri suicidari, o che manifestano un grado significativo di ideazione suicidaria prima dell'inizio del trattamento, sono a rischio maggiore di ideazione suicidaria o di tentativi di suicidio, e devono essere attentamente controllati durante il trattamento. Una metanalisi degli studi clinici condotti con farmaci antidepressivi in confronto con placebo nella terapia di disturbi psichiatrici, ha mostrato un aumento del rischio di comportamento suicidario nella fascia di eta'inferiore a 25 anni dei pazienti trattati con antidepressivi rispetto al placebo.La terapia farmacologia con antidepressivi deve essere sempre associata ad una stretta sorveglianza dei pazienti, in particolare di quelli ad alto rischio, specialmente nelle fasi iniziali del trattamento e dopo cambiamenti di dose. I pazienti (o chi si prende cura di loro) dovrebbero essere avvertiti della necessita' di monitorare e di riportare immediatamente al proprio medico curante qualsiasi peggioramento del quadro clinico, l'insorgenza di comportamento o pensieri suicidari o di cambiamenti comportamentali.Gli antidepressivi interessati sono: ademetionina amitriptilina, dosulepina, desipramina, imipramina, iperico, maprotilina, mianserina, mirtazapina, nortriptilina, oxitriptano, reboxetina, tranilcipromina, trazodone, trimipramina,citalopram, fluoxetina, fluvoxamina, paroxetina, sertralina e venlafaxina

Rischio di gravi infezioni e di tumori con gli anticorpi anti-TNF

Secondo una metanalisi l'uso degli anticorpi anti-TNF risulterebbe associato al rischio di gravi infezioni e di tumori.
Esistono evidenze di un aumento del rischio di infezioni gravi e di tumori dose-dipendente in pazienti affetti da artrite reumatoide trattati con anticorpi anti-TNF (Tumor Necrosis Factor). L’uso di metanalisi che raccolgono dati relativi ad eventi avversi rilevati nel corso dei trial clinici randomizzati e controllati è un utile strumento per valutare i potenziali rischi delle terapie farmacologiche.Il Tumor necrosis factor (TNF) svolge un ruolo fondamentale nei processi di difesa dell’organismo da agenti esterni e nel controllo della crescita tumorale. Pertanto, le terapie con anticorpi anti-TNF possono aumentare il rischio di gravi infezioni e tumori.
Una recente metanalisi ha valutato l’effetto delle terapie con anti-TNF sull’aumento del rischio di gravi infezioni e di tumori in pazienti con artrite reumatoide. Lo studio ha preso in considerazione tutti gli eventi avversi rilevati nei diversi trial clinici randomizzati su infliximab e adalimumab, della durata di almeno 12 settimane, condotti in pazienti con artrite reumatoide. Complessivamente, i pazienti trattati con gli anticorpi anti-TNF sono stati 3493 vs 1512 randomizzati a placebo.
I risultati hanno evidenziato che, nel caso dei tumori, l’odds ratio aggregata per i trattati con uno dei due farmaci era di 3,3 (IC 95%, 1,2-9,1), mentre quella per le infezioni gravi era di 2,0 (IC 95%, 1,3-3,1), intendendo per infezioni gravi quelle che hanno richiesto una terapia antimicrobica o l’ospedalizzazione del paziente.
E’ stato osservato che l’incidenza dei tumori era significativamente maggiore nella popolazione trattata con le dosi maggiori di anti-TNF.
Fonte:Bongartz T et al. Anti-TNF antibody therapy in rheumatoid arthritis and the risk of serious infections and malignancies: systematic review and meta-analysis of rare harmful effects in randomized controlled trials. JAMA 2006; 295: 2275-85.

È un anticolesterolo il farmaco più innovativo del 2006

Il tradizionale «Premio Galeno Italia 2006 per il farmaco innovativo» è stato assegnato alla combinazione molecolare ezetimibe/simvastatina, che sta raccogliendo successi in tutto il mondo nella lotta al colesterolo LDL.L'innovazione del farmaco consiste nel fatto che una sola compressa agisce contemporaneamente su entrambe le fonti principali di colesterolo, la sintesi epatica e l'assorbimento intestinale.«Alla luce delle evidenze cliniche e sperimentali», ha spiegato il professor Alberto Corsini, ordinario di farmacologia del dipartimento di scienze farmacologiche dell'università di Milano, «la combinazione di farmaci con meccanismi complementari, ovvero la doppia inibizione, rappresenta l'approccio terapeutico innovativo e ottimale per il controllo dell'ipercolesterolemia in pazienti ad alto rischio vascolare».Il numero di queste persone, potenziali vittime di attacchi cardiaci, oggi in Italia equivale al 57% degli uomini e al 58% delle donne, che possiedono valori di colesterolemia superiori ai 200 mg/dL. La percentuale, poi, sale rispettivamente al 66% e al 63% dopo i 65 anni.Ci si aspetta che il successo del farmaco nei riguardi dell'ipercolesterolemia determini quindi anche benefici nella prevenzione della malattia cardiovascolare, che rappresenta una delle principali cause di morte per malattia nel mondo occidentale.

L’antibiotico-resistenza

Il fenomeno dell'antibiotico resistenza rappresenta una delle emergenze di Sanità Pubblica del 21° secolo; ad esso strettamente connesso è il numero crescente di infezioni nosocomiali causate da batteri con resistenze multiple.

Gli agenti eziologici più frequentemente responsabili di tali infezioni sono: Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA), enterococco vancomicina-resistente (VRE), ed Escherichia coli e Pseudomonas aeruginosa multiresistente. Negli ultimi anni i batteri gram-negativi, particolarmente P. aeruginosa, A. baumannii ed enterobatteri che producono β lattamasi a spettro allargato (ESBL) sono emersi quali importanti patogeni nosocomiali associati a significativa morbilità e mortalità.

La colonizzazione e l'infezione (difficile da distinguersi sul piano clinico) con ceppi resistenti appartenenti a tali specie sono favorite dalla prolungata ospedalizzazione, dal crescente uso di dispositivi meccanici quali la ventilazione assistita e dalla somministrazione di antibiotici a largo spettro.
Più nel dettaglio, durante il periodo 1990-1996 i tre principali patogeni gram positivi ( S. aureus, stafilococchi coagulasi-negativi ed enterococchi) sono stati responsabili del 34% delle infezioni nosocomiali, e i quattro principali patogeni gram negativi ( E. Coli, P. aeruginosa, Enterobacter spp., K. Pneumonite) del 32%.

Del tutto recentemente (dicembre 2004) sono stati presentati i risultati dello studio multicentrico coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità relativo ad una rilevazione delle infezioni ospedaliere in nosocomi italiani nell'anno 2003. La percentuale di tali infezioni varia da 5 a 10%; la maggior parte di esse sono polmoniti ed infezioni urinarie causate da E. coli, S. aureus, P. aeruginosa. Per quanto concerne la percentuale di MRSA è più alta nelle regioni centro-settentrionali dell'Italia, nei soggetti con età maggiore di 65 anni, negli ospedali con più di 900 posti letto e nei reparti di terapia intensiva e chirurgia. Inoltre si registra una grande variabilità nella frequenza di MRSA identificati nei diversi ospedali e anche nei diversi reparti: ad esempio in terapia intensiva e chirurgia la frequenza di MRSA sfiora il 60%.

È ormai un dato accertato che un'importante causa di insorgenza di infezioni nosocomiali risiede nell' uso “eccessivo” di antibiotici. L'estrema variabilità dell'antibioticoresistenza sul territorio mostra l'assoluta necessità di personalizzare la terapia sulla base di dati certi riferiti all'agente patogeno e alle caratteristiche dell'ospite.


L' uso prudente degli antibiotici che viene da più parti e da prestigiose istituzioni nazionali ed internazionali invocato come un'efficace mezzo di contenimento del fenomeno delle resistenze può essere perseguito attraverso varie modalità che vanno dalle politiche di contenimento/restrizione, adesione a linee guida, formulari ospedalieri ed extra-ospedalieri e più recentemente, l'impiego delle tecnologie intelligenti che si avvalgono di sistemi esperti per fornire un ausilio sulla scelta della terapia antibiotica.

Prescrizioni inappropriate di antibiotici, quali medici ne fanno di più

Le differenze tra strategie prescrittive degli antibiotici tra medico e medico e le inappropriatezze in questo campo da quali fattori dipendono e in quale misura? Se lo domanda il Canadian Medical Association Journal.

I ricercatori del Department of Epidemiology and Biostatistics della McGill University di Montreal hanno analizzato una coorte storica di 852 medici primari del Quebec nominati tra il 1990 e il 1998 e valutato le loro abitudini riguardo alla prescrizione di antibiotici durante i primi 6-9 anni di carriera prendendo in esame esperienza nella pratica clinica, volume della pratica clinica quotidiana, luogo dove si è svolto il training, voto agli esami. Un totale di 104.230 pazienti nel periodo analizzato hanno ricevuto una diagnosi di infezione virale e 65.304 di infezione batterica. È emerso che i laureati extra-americani hanno una tendenza maggiore a prescrivere antibiotici per infezioni virali respiratorie: le prescrizioni inappropriate aumentano con l’aumento degli anni di carriera. Anche i medici con un volume di visite quotidiane più elevato tendono a prescrivere inappropriatamente gli antibiotici più frequentemente, mentre la carriera accademica e le votazioni ricevute non sembrano avere una correlazione statistica con le prescrizioni errate.

Bibliografia. Cadieux G, Tamblyn R, Dauphinee D, Libman M. Predictors of inappropriate antibiotic prescribing among primary care physicians. CMAJ 2007; 177(8): 877-83.

Anoressia

Un corpo perfetto: un sogno che diventa ossessione per tre milioni di italiani, il 90% dei quali donne. Mentre il mondo si interroga sulla sempre maggiore incidenza dei disturbi legati al cibo e alle responsabilità che ricoprono la società, il mondo della moda e i genitori, si susseguono le ricerche volte a fotografare l’incidenza delle patologie alimentari nel nostro Paese e si moltiplicano le iniziative contro questa malattie.
Aumentano i casi di bulimia e anoressia, lo rivelano i dati recentemente resi noti dall'Associazione nazionale dietisti. Un numero sempre maggiore di donne over 40 soffre di anoressia, mentre la bulimia sembra essere il nuovo male delle giovanissime (convive con questa patologia l’1% delle giovani donne tra i 12 e i 25 anni, contro lo 0,5% che soffre di anoressia).
Ma i dati più allarmanti riguardano i bambini: Massimo Cuzzolaro dell'Università La Sapienza di Roma, ha dichiarato nel corso del recente congresso nazionale della AND, che ad ammalarsi di anoressia sono anche bambini di otto anni: “si tratta di casi isolati e rari – ha chiarito lo studioso – ma i sintomi ci sono tutti, primo fra tutti il vomito autoindotto”.
Un’indagine realizzata recentemente dall’ABA (Associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, la bulimia, l'obesità e i disordini alimentari) su 3894 soggetti ha dimostrato che il 96,8% dei soggetti colpiti da questi disturbi sono donne, il 68% ha un diploma di scuola superiore e il 12% è laureato, nel 28,5% dei casi lo status socio-economico del paziente è medio-alto e nel 56% è medio (solo il 15,3% dei pazienti proviene da un ceto socio-economico basso). Ciò dimostrerebbe che i disturbi alimentari, legati secondo gli esperti spesso a problemi affettivi e familiari, colpiscono soprattutto persone di un livello culturale e sociale medio-alto.
Sempre più numerose le iniziative legate alla lotta a queste patologie. Una fra tutte: nascerà a Roma nel 2008 la prima casa per la cura di anoressia e bulimia, presso la ASL C. I lavori di ristrutturazione dei locali destinati al centro stanno per iniziare e costeranno 1,2 milioni di euro. Queste le principali attività previste: terapia di gruppo, mindfulness, teatro-terapia, arte-terapia oltre che, naturalmente, attività finalizzate alla diagnosi, al trattamento psicoterapeutico e riabilitativo.Il centro avrà una natura semiresidenziale e il pasto rappresenterà uno delle nuclei fondamentali della terapia: come spiegato da Vito Salvemini, direttore responsabile dell'Unità Operativa Disturbi del comportamento alimentare dell'ospedale S. Eugenio, si formeranno dei gruppi di pazienti per recuperare insieme la capacità di riconoscere le sensazioni corporee e di migliorare le proprie capacità relazionali e personali attraverso l’esperienza del pasto in comune. La degenza media durerà circa quattro mesi e i familiari del paziente saranno chiamati a partecipare ad interventi di gruppo per ricostruire o rinsaldare rapporti che possono rappresentare un ostacolo alla guarigione.

Denutrizione
La denutrizione è un termine generico per indicare ogni condizione patologica collegata ad una dieta inadeguata che, protratta nel tempo, causa un apporto di nutrienti insufficiente al fabbisogno dell’organismo.Le forme comuni di denutrizione includono la “Protein-Energy Malnutrition” (PEM) - collegata ad un inadeguato apporto energetico e proteico - e la “denutrizione da micronutrienti”, dovuta ad un'inadeguata disponibilità di quelle sostanze (quali le vitamine o i sali minerali) fondamentali per il sostentamento del nostro organismo.La denutrizione - intesa come scarsa assunzione di nutrienti (denutrizione primaria) - è di solito associata alla povertà estrema dei paesi invia di sviluppo (dove spesso la maggior parte delle persone non riesce a nutrirsi in maniera adeguata), ma bisogna porre l'accento sul fatto che non ne è esente neanche il ricco occidente industrializzato: problemi psicologici ed emotivi, esaurimento fisico e nervoso, depressione, insonnia, malattie e scarsa vita sociale sono alcuni dei fattori che possono portare alla denutrizione anche individui che vivono in uno stato di sostanziale benessere.
La denutrizione (o iponutrizione) è un termine generico per indicare la condizione patologica causata da una dieta inadeguata protratta nel tempo e – di conseguenza – da un apporto di nutrienti insufficiente al fabbisogno dell’organismo. La denutrizione può essere primitiva (volontaria o involontaria) o conseguente Le forme comuni di denutrizione includono la "protein-energy malnutrition" (PEM) - collegata ad un inadeguato apporto energetico e proteico - e la denutrizione da micronutrienti, dovuta ad un'inadeguata disponibilità di sostanze nutrienti (quali le vitamine o i sali minerali) necessarie in quantità minime ma fondamentali per il sostentamento del nostro organismo.

Cause
La denutrizione può essere causata da un’inadeguata assunzione di nutrienti, volontaria o involontaria (denutrizione primitiva). In molti casi, però, è dovuta a un malassorbimento dei nutrienti, oppure è conseguente a patologie gastrointestinali, endocrine, infettive o degenerative: alcuni tipi di cancro (ai polmoni, all’apparato gastrointestinale) che necessitano di cure che provocano nausea, perdita d’appetito e vomito, infezioni all’apparato masticatorio, fibrosi cistica, miopatia, Alzhaimer, Parkinson, insufficienza renale o polmonare. Le situazioni sociali e personali che aumentano il rischio di denutrizione sono: depressione, demenza, insonnia, esaurimento fisico e nervoso, malattie, problemi di memoria, assunzione elevata di farmaci, sedentarietà, problemi emotivi, scarsa vita sociale. La denutrizione - intesa come scarsa assunzione di nutriente - è di solito associata alla povertà estrema dei paesi invia di sviluppo.La malnutrizione - intesa come una dieta squilibrata - è invece presente nei paesi sviluppati: consiste nella carenza proteica nella dieta, o vitaminica o di sali minerali. Molte malattie sono collegate alla malnutrizione; un esempio è lo sgorbuto, provocato dalla carenza di vitamina C.

Conseguenze
La denutrizione condiziona la salute generale e la qualità della vita, lasciando esposti a maggiori rischi di contrarre patologie o a peggiorare la prognosi delle malattie già in atto. Le principali conseguenze sono:
stato di debolezza;
anemia;
astenia;
riduzione della massa muscolare;
indebolimento del sistema immunitario;
aumento del rischio-fratture;
problemi gastrointestinali;
scarsa rigenerazione dei tessuti danneggiati.
La deficienza da micronutrienti può esporre l'organismo a numerose patologie, soprattutto quelle infettive, o comportare - nei bambini - problemi nel corretto sviluppo fisico e intellettivo.

Sintomi e diagnosi
La denutrizione di solito si manifesta con una sostanziale perdita di peso (dal 5 al 10% circa, ma può raggiungere anche il 50%) dovuta al consumo dei depositi di grasso e delle masse muscolari. Questo comporta assottigliamento della pelle, sporgenza delle ossa, pallore, perdita di capelli. Altri sintomi sono: perdita di interesse, affaticamento, chiusura in se stessi, problemi gastrointestinali (diarrea, costipazione), perdita d'appetito, stato confusionale, debolezza, problemi di deambulazione, inappetenza, disidratazione, amiotropia, problemi al cavo orale, problemi dermatologici, difficoltà a masticare o a degluttire.

Trattamento
Il trattamento della denutrizione prevede in primo luogo l'adozione di una dieta appropriata ed equilibrata. Nei casi gravi si provvede ad una “rialimentazione” graduale mediante pasti frequenti ma poco consistenti, in modo da dare il tempo all’apparato digerente di riattivare a pieno le sue funzioni, con l'ausilio - se necessario - di integratori alimentari.

Angioplastica: prevenzione della restenosi con il virus herpes simplex

Prevenire la restenosi post-angioplastica con palloncino grazie al virus herpes simplex: è l’innovativo approccio proposto da uno studio pubblicato dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Le lesioni causate dalla distensione della parete arteriosa che si ha in seguito all’angioplastica con palloncino possono causare apoptosi e una proliferazione abnorme delle cellule del tessuto muscolare liscio. I ricercatori dell’University of Chicago hanno scoperto che esponendo il lume dell’arteria trattata a un virus herpes simplex mutato geneticamente in laboratorio si blocca sul nascere questo processo patologico. La procedura permette la restaurazione dell’endotelio arterioso e previene iperplasie e restenosi.

James E. Vosicky del Department of Surgery dell’University of Chicago spiega: “La nostra scoperta ha potenzialmente una vasta applicazione nella prevenzione della restenosi indotta da procedure di angioplastica con palloncino”.

Bibliografia. Skelly CL, Chandiwal A, Vosicky JE et al. Attenuated herpes simplex virus 1 blocks arterial apoptosis and intimal hyperplasia induced by balloon angioplasty and reduced blood flow. PNAS 2007; 104(30): 12474-12478 doi: 10.1073/pnas.0705429104.

Angioplastica

Secondo dati presentati all’ultimo congresso di Cardiologia interventistica tenutosi a Washington (TCT), nell’anno 2006 il numero di procedure di angioplastica è aumentato a tal punto da quintuplicare quello degli interventi di by-pass aortocoronarico. In controtendenza con questi dati che sanciscono una netta preferenza per la tecnica di rivascolarizzazione mediante angioplastica, negli ultimi due anni è capitato di leggere commenti poco lusinghieri sull’impiego dell’angioplastica. Commenti che sembravano minare le certezze emerse negli ultimi anni.
Risponde Francesco Prati del Dipartimento per le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, intervenuto al XXV Congresso di Cardiologia "Conoscere e curare il cuore '08" di Firenze, organizzato dal Centro per la lotta contro l'infarto - Onlus: "Rimango dell’idea che gli stent a rilascio di farmaco siano un importante traguardo per la cardiologia interventistica. L’applicazione nell’arteria del cuore di queste “retine” in grado di ottimizzare i risultati dell’angioplastica e di prevenire quella complicanza conosciuta come restenosi (restringimento tardivo) ha ulteriormente esteso le indicazioni a questa modalità di rivascolarizzazione. Indubbiamente queste endoprotesi possono andare incontro a quel fenomeno conosciuto come trombosi tardiva. In altri termini, in un numero di casi molto limitato, gli stent medicati si possono chiudere improvvisamente, causando eventi importanti come l’infarto. Lo scorso anno, testate giornalistiche diedero ampio spazio agli insuccessi derivanti dall’impiego del palloncino e di nuovi stent. “Il palloncino si è sgonfiato” recitava un articolo di fondo dedicato sul Corriere della Sera: la polemica venne innescata da una iniziale osservazione secondo la quale la trombosi tardiva degli stent medicati comportava un aumento di eventi cardiovascolari rispetto all’impiego di stent tradizionali che non rilasciano alcun medicamento. In realtà questi primi riscontri che si basavano su casistiche insufficienti ed una metodologia criticabile non sono stati confermati da studi pubblicati in seguito su riviste di grande prestigio. Si è potuto concludere che gli stent medicati riducono la restenosi fin quasi ad annullarla senza causare un eccesso di eventi cardiaci, come la morte o il reinfarto rispetto agli stent tradizionali". L’occlusione tardiva degli stent medicati è allora un falso problema? "No, rimane un dato certo il tasso di trombosi pari allo 0,5-0,6 per cento per anno", spiega ancora Prati. "Questa percentuale è tuttavia bassa e non si traduce pertanto in un aumento di eventi cardiaci. Non va infatti dimenticato che anche altre metodiche di rivascolarizzazione presentano delle limitazioni. Il by-pass, ad esempio, comporta un aumento del tasso di complicanza, tra cui la morte, nell’immediato post-operatorio. Questo dato non sorprende se si considera che la procedura è ben più traumatica della tecnica dell’angioplastica. L’angioplastica rimane un cardine nella terapia dell’infarto. Anche gli studi più recenti hanno confermato il ruolo dell’angioplastica nella riapertura dell’arteria responsabile dell’infarto. La riapertura precoce della coronaria mediante dilatazione con palloncino e successivo posizionamento dello stent rappresenta infatti la modalità di trattamento ottimale".

Bibliografia. Ufficio stampa XXV Congresso di Cardiologia "Conoscere e curare il cuore '08", Centro per la lotta contro l'infarto - Onlus 2008.

Angioplastica carotidea e stent


Indicazioni chirurgiche - Stenosi carotidea sintomatica

Nel caso di stenosi carotidea sintomatica, la endoarteriectomia comporta un modesto beneficio
per gradi di stenosi tra 50% e 69% (NNT 22 per ogni ictus ipsilaterale, NNT non significativo per
ictus disabilitante e morte), e un elevato beneficio per stenosi tra 70% e 99% (NNT 6 e 14 rispettivamente),
purché in assenza di near occlusion. In pazienti con near occlusion il beneficio è marginale.
In pazienti con un elevato punteggio di rischio secondo i modelli fino a oggi validati, il
vantaggio dell’intervento è ancora maggiore (NNT 3), mentre in pazienti con un basso punteggio
il vantaggio è assai dubbio (NNT 100).
Il trattamento chirurgico (tromboendoarterectomia) si è dimostrato efficace nel ridurre il rischio
di stroke nei pazienti sintomatici con grado elevato di stenosi (70-99%) con una riduzione del
13,3-15,6%, a distanza di 5 anni. (Grado A)
Nella stenosi carotidea sintomatica (entro sei mesi) uguale o maggiore del 70%, valutata con il
metodo North American Symptomatic Carotid Endarterectomy Trial (NASCET), è indicata l’endoarteriectomia carotidea.
Nella stenosi carotidea sintomatica inferiore al 50% (valutata con il metodo NASCET) l’endoarteriectomia carotidea non è indicata.

Nella stenosi carotidea sintomatica compresa fra il 50% e il 69% (valutata con il metodo NASCET)
l’endoarteriectomia carotidea è indicata anche se il beneficio è modesto, almeno per i primi anni
di follow up, pur crescendo negli anni successivi.
Nella stenosi carotidea sintomatica compresa fra il 50% e il 69% (valutata con il metodo NASCET)
l’endoarteriectomia carotidea è indicata con netto beneficio solo nei pazienti a più alto rischio,
meglio se definito con modelli predittivi validati (pazienti con ischemia recente, sintomi cerebrali
e non oculari, placca ulcerata, età più avanzata, di sesso maschile, non diabetici).
Indicazioni chirurgiche - Stenosi carotidea asintomatica

Le evidenze sull’efficacia dell’endoarteriectomia nella stenosi carotidea asintomatica sono ancora
solo parzialmente definite e importanti studi in corso forniranno ulteriori indicazioni, specialmente
Linee guida diagnostico-terapeutiche 65
PNLG – Diagnosi e cura dell’ictus
66 Linee guida diagnostico-terapeutiche
PNLG – Diagnosi e cura dell’ictus
sui sottogruppi di pazienti a maggior rischio di ictus e quindi con maggior beneficio dall’intervento.

Nei pazienti asintomatici il beneficio della TEA è risultato nettamente inferiore (5,9% di riduzione
del rischio con una stenosi del 60-99%). (Grado A)
L’intervento di endoarteriectomia in caso di stenosi carotidea asintomatica uguale o maggiore al
60% (valutata con il metodo NASCET) è indicato solo se il rischio perioperatorio di complicanze
gravi è inferiore al 3% e comunque offre un beneficio modesto in termini di riduzione assoluta
del rischio.
Test diagnostici preoperatori

La coronarografia è indicata nei pazienti candidati all’endoarteriectomia carotidea con evidenza
clinica o ai test strumentali non invasivi di grave coronaropatia.
Nei pazienti candidati all’endoarteriectomia carotidea, con grave coronaropatia associata, è indicato
valutare anche l’opportunità della rivascolarizzazione coronarica. Il timing prevede o la modalità
sequenziale, dando precedenza all’intervento nel distretto prevalentemente compromesso sul
piano clinico, o la simultaneità.
Nella decisione sul timing dell’endoarteriectomia carotidea nei pazienti sintomatici, devono essere
considerate sia le caratteristiche dell’evento clinico che i reperti della TC cerebrale:
 in caso di TIA o minor stroke e TC normale è indicata la chirurgia quanto più precoce possibile
 in caso di deficit neurologico stabilizzato con lesioni TC minime è indicata la chirurgia precoce
 indipendentemente dalla gravità del deficit neurologico, se le lesioni TC sono estese non è
indicata la chirurgia precoce.

L’ecodoppler carotideo è indicato quale esame di primo impiego allo scopo di definire la diagnosi
eziopatogenetica e di selezionare i pazienti candidati alla chirurgia della carotide.
L’angiografia convenzionale dei tronchi sovraortici, poiché utilizzata nei principali studi, è stata
la tecnica diagnostica gold standard nella valutazione delle indicazioni all’intervento di endoarteriectomia
carotidea; pertanto l’ecodoppler carotideo è indicato come unico esame diagnostico
preoperatorio della stenosi carotidea soltanto dopo averne verificato l’accuratezza.
L’angioRM e/o l’angio-TC dei vasi del collo sono indicate quando l’ecodoppler carotideo non
è giudicato sufficientemente informativo.
Gli esperti del gruppo SPREAD raccomandano di limitare l’uso dell’angiografia convenzionale ai
casi in cui vi sia discordanza tra ecodoppler carotideo e angioRM/angio-TC o quando non sia
possibile ricorrere a tali metodiche. (GPP)

Procedure chirurgiche

In caso di anestesia generale è indicato un monitoraggio cerebrale intraoperatorio di affidabilità
controllata (EEG, potenziali evocati somatosensoriali, doppler transcranico).
L’anestesia loco-regionale è indicata in quanto, rispetto a quella generale, offre maggiori garanzie
di monitoraggio cerebrale e si associa a riduzione di rischio perioperatorio di morte, ictus,
infarto miocardico e complicanze polmonari.

Sia con l’anestesia generale che con quella loco-regionale può essere indicato l’uso dello shunt
temporaneo selettivo per la protezione cerebrale.
Nonostante la tendenza, in studi non randomizzati, a favore del patch per la sutura arteriosa in
termini di riduzione di ictus e morte perioperatori, trombosi o restenosi, a tutt’oggi non è possibile
fornire raccomandazioni conclusive. È necessaria infatti una maggiore evidenza da studi randomizzati,
confrontando con la sutura diretta non solo l’uso del patch di routine ma anche di
quello selettivo, che risulta comunque il più usato.
Per la mancanza di sufficienti studi randomizzati e controllati di confronto tra endoarteriectomia
e angioplastica/stenting non è indicato un cambio di tendenza dall’endoarteriectomia verso le procedure
endovascolari nella correzione chirurgica di routine della stenosi carotidea.

L’angioplastica/stenting carotidea è indicata solo in casi selezionati, quali la restenosi, la stenosi
a estensione craniale, la stenosi postattinica. È controindicata in caso di sospetto trombo endoluminale
o di importanti calcificazioni dei tronchi sovraortici.

Gli esperti del gruppo SPREAD raccomandano le procedure endovascolari in caso di gravi comorbosità
vascolari o cardiache. (GPP)
Nei pazienti ad alto rischio chirurgico, in particolare quelli con grave cardiopatia ischemica, è stata
riportata una elevata morbilità e mortalità tra quanti venivano sottoposti a TEA. Inoltre sono
considerate ad alto rischio le TEA effettuate in presenza di occlusione controlaterale della carotide
interna e quelle effettuate su una precedente TEA ipsilaterale. Il successo della TEA è fortemente
limitato quando la lesione stenosante è localizzata nella porzione cervicale alta della carotide
interna o all’ostio della carotide comune. Va inoltre considerata la frequenza di restenosi, la
cui riparazione chirurgica è tuttora considerata indaginosa.
Linee guida diagnostico-terapeutiche 67
PNLG – Diagnosi e cura dell’ictus
Recenti studi17 suggeriscono che lo stenting carotideo (SC) potrebbe essere meno traumatico e
con un miglior rapporto costo beneficio, specialmente nei pazienti ad alto rischio chirurgico. La
metodica di SC sarebbe gravata da un minor tasso di complicanze perioperatorie e risulterebbe
di più facile approccio, tanto che ne è stata tentata la pratica anche in regime ambulatoriale.18
Nella serie di 528 pazienti studiati da Roubin il tasso di complicanze a 30 giorni sembra accettabile:
stroke fatale 0,6%, mortalità non correlata allo stroke 1%, stroke maggiore non fatale 1%, minor
stroke e TIA 5,5%. A distanza di cinque anni, l’incidenza di episodi ischemici cerebrali e morte,
dopo i 30 giorni iniziali, era del 3,2% e la percentuale di assenza di ictus ipsilaterale e morte dopo
tre anni (Kaplan-Maier) era del 92±1%.
I dati dello studio NASCET riportano il 5,5% di ictus ischemico e un tasso cumulato di morte e
stroke del 5,8%. Nello studio NASCET molti pazienti erano esclusi a causa di patologie associate
ed età avanzata e nel 7,6% si sono avuti deficit dei nervi cranici, nell’8,9% complicanze della ferita,
nel 3,9% infarto al miocardio. Il tasso di complicanze neurologiche è stato inoltre esaminato
nello studio multicentrico europeo CAST 119 in cui pazienti sintomatici e asintomatici con una
stenosi uguale o maggiore al 70%, della lunghezza massima di 2 cm, sono stati trattati con impianto
di stent: i risultati confermano l’idea che le lesioni di lunghezza contenuta possano essere trattate
con stenting carotideo in tutta sicurezza.
Recentemente è stata pubblicata sulla rivista Stroke17 una casistica di 136 pazienti trattati con TEA
e altrettanti trattati con SC, i cui risultati mostrano che l’analisi dei costi e delle risorse impiegate
(lunghezza della degenza, costo effettivo) sia nettamente a favore della metodica percutanea, tenendo
conto che oltre il 60% dei pazienti trattati con stenting carotideo, di cui si parla nella casistica
pubblicata, sono ad alto rischio per la presenza di gravi patologie associate e per l’età avanzata. Questa
considerazione è di fondamentale importanza nel valutare i risultati ottenuti con la tecnica SC.
Lo studio CAVATAS (uno studio randomizzato TEA vs angioplastica carotidea e vertebrale con
solo il 26% di stenting in salvataggio) non ha mostrato alcuna differenza nell’incidenza di stroke
periprocedurali (10% PTA e 9,9% TEA).20
Altra considerazione da fare è che tutte le casistiche qui riportate riguardano la procedura di SC
senza l’applicazione di sistemi di protezione distale, che vengono ormai raccomandati e usati nella
quasi totalità delle procedure, determinando un’ulteriore sensibile riduzione di incidenza degli
eventi ischemici cerebrali periprocedurali.
Va sottolineato che le procedure di SC possono essere associate, durante la stessa seduta, ad altre
procedure di intevenzionistica in altri distretti, con notevole riduzione di rischio rispetto ai trattamenti
chirurgici combinati (SC più PTCA, SC più stenting renale, eccetera).
Le procedure di SC, allo stato attuale, devono essere messe in atto all’interno di centri con una
curva di apprendimento accettabile, con operatori già molto esperti in trattamenti di angioplastica
e dotati di tutta la strumentazione necessaria per rendere sicuro ed efficace il trattamento.
Una citazione a parte merita, nell’ambito dell’Alta specialità, il trattamento di chiusura del Forame
ovale pervio (FOP) nello stroke criptogenetico o nell’embolia sistemica da cause sconosciute. Il rischio
di complicanze maggiori nell’eseguire la chiusura percutanea del FOP in anestesia locale è ormai
vicino allo zero e, nei centri a maggior esperienza, sarebbe possibile compierla in regime ambulatoriale.
Tale procedura deve essere riservata a casi selezionati in cui la causa dell’ictus sia attribuibile
con sicurezza a un’anomalia del setto interatriale, costituita da FOP associato ad aneurisma.
68 Linee guida diagnostico-terapeutiche
PNLG – Diagnosi e cura dell’ictus
Si riporta qui di seguito una sintesi delle possibili indicazioni e controindicazioni dello stenting
carotideo.

Indicazioni allo stenting carotideo con protezione distale

 restenosi post TEA
 stenosi post attiniche
 stenosi della porzione alta della carotide interna e dell’ostio della carotide comune non accessibile
chirurgicamente
 stenosi del sifone ipsilaterale
 occlusione della carotide interna controlaterale
 scarsa visualizzazione dei rami intracranici della carotide
 prima di un intervento di cardiochirurgia in circolazione extra corporea
 in presenza di fattori di rischio chirurgico elevato per patologie associate e per età

Controindicazioni allo stenting carotideo con protezione distale

 trombosi all’interno della carotide
 controindicazione all’uso dei mezzi di contrasto
 ateroma flottante

Caratteristiche anatomiche che possono aumentare il rischio di complicanza
dello stenting carotideo con protezione distale

 calcificazioni massive concentriche della lesione
 estrema tortuosità della carotide comune e/o della carotide interna al punto da rendere impossibile
il posizionamento dell’apparecchiatura
 anatomia sfavorevole dell’aorta che non renda possibile il posizionamento dell’apparecchiatura
 stenosi carotidea serrata
 lesioni lunghe (>12 cm)

Controllo di risultato

Entrambe le tecniche, endoarteriectomia a cielo aperto e per eversione, possono essere indicate
nel trattamento chirurgico della stenosi carotidea, purché siano entrambe eseguite con tasso di
complicanze gravi (morte, ictus) perioperatorie inferiore al 3%.
È indicato che ogni centro valuti e renda nota la propria incidenza di complicanze gravi (morte,
ictus) perioperatorie che può condizionare l’indicazione all’intervento, specie nella stenosi carotidea
asintomatica.
Il controllo post procedurale, che può portare all’identificazione e all’eventuale riparazione di difetti
in corso di endoarteriectomia carotidea, è indicato per il controllo di qualità e si associa a signi-
Linee guida diagnostico-terapeutiche 69
PNLG – Diagnosi e cura dell’ictus
ficativa riduzione delle complicanze post operatorie, come la restenosi e l’ictus a distanza.

È indicata la terapia antiaggregante piastrinica da prima dell’intervento, se non vi sono controindicazioni.

È indicata la correzione chirurgica della restenosi, quando questa è di grado elevato e responsabile
di una sintomatologia neurologica chiaramente correlata.
Non è indicato un follow up intensivo, mentre è indicato un controllo precoce entro tre mesi dall’intervento,
un altro a nove mesi e successivamente a scadenza annuale.

Angiomi del SNC: cosa sono e come si manifestano

Le malformazioni vascolari (MAV ) o “angiomi” del sistema nervoso centrale sono costituite da vasi patologici che formano shunt arterovenosi diretti, senza una rete capillare intermedia e generalmente senza interposizione di parenchima nervoso. I vasi arteriosi che nutrono la malformazione sono sinuosi e dilatati così come le vene di scarico, compatti fra loro ed a volte di dimensioni abnormi. Gli angiomi si sviluppano dislocando ai margini il parenchima, che generalmente preserva le sue funzioni. Alla diagnosi circa il 30% delle MAV ha il diametro massimo inferiore a 3 cm, il 60% tra 3 e 6 cm ed il 10% superiore a 6 cm. Circa il 90% delle MAV è sopratentoriale, più spesso a livello della superficie degli emisferi cerebrali e nel territorio della arteria cerebrale media (lobi frontale, temporale e parietale). Infrequente è la loro osservazione in fossa cranica posteriore e molto rare sono le MAV spinali. La rottura e la conseguente emorragia intraparenchimale costituiscono la principale complicanza delle MAV. Le malformazioni superficiali danno più spesso luogo ad emorragia subaracnoidea (ESA), mentre le profonde determinano in genere emorragie intracerebrali con eventuale inondamento ventricolare. Le MAV spinali rompendosi provocano ematomielia.e/o emorragia subaracnoidea. Le malformazioni vascolari o “angiomi” del sistema nervoso centrale (MAV) sono costituite da una rete patologica di arterie, vene, capillari e/o canali cavernosi. Esse hanno una origine presumibilmente congenita. Le MAV raramente divengono sintomatiche nell’infanzia e dopo i 60 anni. Aumentando l’entità del flusso attraverso gli shunt artero-venosi, il sangue destinato ad altre aree cerebrali o spinali è deviato verso la MAV, determinando un incremento delle dimensioni della malformazione ed una gamma di disturbi clinici che includono l’emorragia, la cefalea, l’epilessia ed i deficit ischemici locali. L'emorragia intraparenchimale provocata dalla rottura dell'angioma costituisce la modalità d'esordio più comune (30-75% dei casi). L'emorragia subaracnoidea e lo spandimento intraventricolare spesso si associano alla raccolta ematica intracerebrale. La massima incidenza di sanguinamento si osserva tra gli 11 ed i 35 anni ed a 20 anni il rischio è pari al 40% circa. Ogni paziente affetto da MAV ha un rischio di una prima emorragia pari all'1-3% all'anno, mentre il rischio di risanguinamento è circa il 6% nell'anno seguente la prima emorragia ed il 2-4% successivamente. Annualmente l'incidenza di mortalità e di morbidità per MAV non trattata è del 4-5%. Le piccole MAV hanno una maggiore probabilità di sanguinare rispetto a quelle più voluminose, con un rischio a 5 anni rispettivamente del 52% e del 10%. Frequenti sono inoltre i piccoli e limitati sanguinamenti che possono passare inosservati o esacerbare la sintomatologia in atto.Contrariamente a ciò che accade per gli aneurismi intracranici, la prima emorragia da MAV è in genere benigna: la mortalità è circa del 10% (rispetto al 50% degli aneurismi), ma tende ad aumentare negli episodi successivi. L'incidenza di esiti neurologici è del 50% circa per ogni episodio emorragico. Ciò è in relazione alla scarsa incidenza di vasospasmo e di risanguinamento della MAV. Infatti ogni sanguinamento può esser separato dal successivo dal trascorrere di anni e, talvolta, di decadi. Il quadro clinico è naturalmente legato alla sede dello spandimento emorragico, con conseguenti deficit sensitivo-motori, campimetrici, del liquaggio parlato e/o compreso, dei nervi cranici, cerebellari o sindromi da sezione parziale o completa del midollo spinale. L'epilessia, generalizzata o parziale, costituisce il secondo sintomo per frequenza degli angiomi cerebrali, soprattutto se la malformazione è situata nei lobi temporale, frontale o parietale. Infatti circa il 25-50% dei pazienti affetti da una MAV, eccezion fatta per quelli localizzati in fossa cranica posteriore, presentano crisi epilettiche non riferibili ad un episodio emorragico. In molti casi è difficile distinguere se l'epilessia è il risultato di una o più piccole emorragie o di un focolaio irritativo adiacente alla MAV. Nella maggior parte dei casi l'epilessia è controllabile con la terapia medica, ma talvolta sono completamente risolte solo con il trattamento chirurgico. La cefalea costituisce un problema frequente nei pazienti affetti da una MAV (10-20% dei casi). La cefalea assume a volte i caratteri dell'emicrania (soprattutto nelle MAV a livello del lobo occipitale), è spesso unilaterale, può essere associata ad un aura pre-critica ed a disturbi visivi. I deficit focali su base ischemica causati da un furto ematico arterioso da parte di una MAV a flusso elevato si osservano in circa il 10% dei casi, spesso con carattere progressivo nel corso degli anni. L'idrocefalo ed i sintomi ad esso associati costituisce infine un altro problema non infrequente (10-15%) né trascurabile nei pazienti affetti da malformazione vascolare intracranica.
Fonte: Div. Neurochirurgia, Osp. Pertini, Roma.

Angioedema ereditario

Sinonimi della Malattia

EDEMA ANGIONEUROTICO EREDITARIO

Definizione

L’angioedema ereditario è una malattia autosomica dominante, causata dalla carenza dell’inibitore dell’esterasi C1. Il ridotto livello sierico o la ridotta attività dell’inibitore dell’esterasi C1 porta all’autoattivazione della via classica del complemento. L’attivazione incontrollata del complemento genera mediatori vaosattivi che inducono l’edema. Il quadro clinico dell’angioedema ereditario è caratterizzato da edema ricorrente del tessuto sottocutaneo (faccia, estremità) e delle membrane mucose includendo la laringe e l’intestino. La diagnosi si basa sulla storia familiare, sulle manifestazioni cliniche, sulla determinazione sierica di C4 e del livello e dell’attività dell’inibitore dell’esterasi C1. Attacchi di edema laringeo o gastrointestinale conducono a condizioni rischiose per la vita. La prevenzione è un elemento essenziale della terapia, includendo la profilassi farmacologica a breve e a lungo termine e l’eliminazione dei fattori precipitanti. L’attacco edematoso acuto che mette in pericolo di vita richiede uno specifico trattamento d’emergenza. (Farkas et al. On the hereditary angioneurotic edema. LEGE-ARTIS-MED. 1998; 8/1 (22-28)

Segni e Sintomi

L’angioedema ereditario è la forma di angioedema familiare più importante ed è una condizione potenzialmente rischiosa per la vita. (Nelson, Textbook of Pediatrics, XVI Edition) L’edema della parte affetta si sviluppa rapidamente, senza orticaria, prurito, discromia o arrossamento e spesso senza grave dolore. L’edema della parete intestinale, per contro, può causare forti crampi addominali, a volte con vomito o diarrea; il concomitante edema sottocutaneo è spesso assente ed alcuni pazienti sono andati incontro ad intervento chirurgico addominale o ad esame psichiatrico prima che venisse posta la diagnosi corretta. L’edema laringeo può essere fatale. Gli attacchi durano 2-3 giorni, poi si attenuano gradualmente; possono verificarsi nel sito di un trauma, dopo un vigoroso esercizio fisico, durante le mestruazioni o per uno stress emotivo. Gli attacchi possono iniziare nei primi due anni di vita, ma generalmente non sono gravi sino all’infanzia avanzata o all’adolescenza. Sono stati segnalati lupus eritematoso sistemico e glomerulonefrite in pazienti con la malattia congenita. (Nelson, Textbook of Pediatrics, XVI Edition) L’angioedema ereditario può tipicamente presentare coliche gastrointestinali ripetute che possono simulare un addome acuto. Solo recentemente è stata descritta ascite in concomitanza di tali episodi. E’ importante fornire adeguate informazioni al paziente ed al personale medico per evitare laparotomie non necessarie. (Bork et al. Ascites and suspected acute abdomen in hereditary angioedema due to C1 inhibitor deficiency. Dtsch-Med-Wochenschr. 1997 Oct 31; 122(44): 1347-50)

Storia Naturale

Si ritiene che questa malattia colpisca un soggetto ogni 50.000-150.000 persone. Tuttavia, la prevalenza nella popolazione Afro-Americana non è nota. (Borum Hereditary angioedema: an unusual case in an African-American woman. J-Natl-Med-Assoc. 1998 Feb; 90(2): 115-8) L’edema laringeo nell’angioedema ereditario può essere fatale. L’asfissia è più frequente tra i 20 e i 50 anni, anche se può avvenire nell’infanzia. I genitori ed il medico curante dei pazienti affetti devono essere altamente consapevoli che il primo episodio di edema laringeo può essere letale. (Bork et al. Asphyxiation by laryngeal edema in patients with hereditary angioedema. Mayo-Clin-Proc. 2000 Apr; 75(4): 349-54)

Eziologia

L’angioedema ereditario compare in persone nate senza la capacità di sintetizzare C1 inibitore normalmente funzionante. Nell’85% delle famiglie affette, i membri colpiti hanno concentrazioni marcatamente ridotte dell’inibitore (dal 5 al 30% del normale), nel rimanente 15% si registrano quantità normali o elevate di una proteina immunologicamente cross-reangente, ma non funzionante. Entrambe le forme della malattia sono trasmesse come carattere autosomico dominante. (Nelson, Textbook of Pediatrics, XVI Edition) I ruoli primari biologici di C1 inibitore sono la regolazione dell’attivazione della via classica del complemento e la regolazione della formazione di chinina del sistema di contatto. L’eterozigosi per il deficit o la disfunzione di C1 inibitore causa l’angioedema ereditario. Questa disfunzione causa perdita dell’omeostasi con deregolazione del complemento e attivazione del sistema di contatto. A causa del conseguente consumo di C1 inibitore (C1-INH), i livelli plasmatici di C1-INH sono inferiori al 50% del normale. In alcuni pazienti i livelli possono essere più bassi per la diminuzione della sintesi. L’epatocita è la fonte primaria di C1-INH, sebbene anche altre cellule, tra cui i monociti del sangue periferico, le cellule microgliali, i fibroblasti, le cellule endoteliali, la placenta e i megacariociti sintetizzino e secernano questa proteina sia in vitro che in vivo. La sintesi di C1-INH è indotta, in diversi tipi cellulari dall’interferone alfa e gamma, il fattore stimolante colonia 1, l’interleuchina 6 ed il fattore di necrosi tumorale alfa. Sebbene la terapia con androgeni produca, in vivo, un aumento dei livelli plasmatici di C1-INH, non è stato dimostrato in modo convincente un effetto diretto degli androgeni sulla sintesi di C1-INH. Il gene per C1-INH contiene un potenziale sito di risposta ai glucocorticoidi/androgeni, tuttavia esso sembra non rispondere agli androgeni. L’analisi continuativa della regolazione transcrizionale di C1-INH può portare a nuovi approcci nella terapia di questa patologia. (Prada et al. Regulation of C1 inhibitor synthesis. Immunobiology. 1998 Aug; 199(2): 377-88) In assenza della funzionalità di C1-INH, l’attivazione di C1 porta ad un’incontrollata attività C1, con esaurimento di C4 e C2 e rilascio di un peptide vasoattivo (chinina) da C2. L’edema episodico, localizzato, che non conserva l’impronta, deriva dagli effetti vasodilatatori della chinina sulle venule postcapillari. Non è noto il meccanismo attraverso il quale il C1 viene attivato in questo pazienti. (Nelson, Textbook of Pediatrics, XVI Edition) Vengono frequentemente riscontrate due forme genetiche di angioedema ereditario. Entrambe sono trasmesse come carattere autosomico dominante e sono caratterizzate da episodi ricorrenti di angioedema localizzato. Un tipo è causato dall’eterozigosi per un allele di C1-INH non espresso, l’altro è causato dall’eterozigosi per un allele di C1-INH non funzionante. (Binkley et al. Clinical, biochemical, and genetic characterization of a novel estrogen-dependent inherited form of angioedema. J-ALLERGY-CLIN-IMMUNOL. 2000; 106/3 (546-550) L’angioedema ereditario con normale concentrazione e funzionalità di C1, rappresenta un singolare disordine genetico che colpisce solo le femmine. Questa patologia sembra essere trasmessa con modalità legata al cromosoma X, ed è stato suggerito il nome di angioedema ereditario di tipo 3 (HAE III). (Bork et al. Hereditary angioedema with normal C1-inhibitor activity in women. Lancet. 2000 Jul 15; 356(9225): 213-7) E’ stato riportato un caso di angioedema ereditario riscontrato dopo l’inizio della terapia sostitutiva con estrogeni per i sintomi menopausali. (McGlinchey et al. Hereditary angioedema precipitated by estrogen replacement therapy in a menopausal woman. Am-J-Med-Sci. 2000 Sep; 320(3): 212-3) Le mutazioni responsabili dell’angioedema ereditario sono eterogenee. Il polimorfismo conformazionale a singolo filamento è un approccio efficace per identificare nuove mutazioni. Il chiarimento della gamma delle mutazioni di C1-INH è importante sia per definire quali parti del gene sono necessarie per la secrezione e la funzione di C1-INH sia per gettare le basi per studi futuri per definire la relazione tra il genotipo di C1-INH e la gravità della malattia. (Zuraw et al. Detection of C1 inhibitor mutations in patients with hereditary angioedema. J-Allergy-Clin-Immunol. 2000 Mar; 105(3): 541-6)

Diagnosi

A causa delle mutazioni spontanee, nel 20%dei pazienti manca una storia familiare. L’eterogeneità dei sintomi clinici porta frequentemente a diagnosi errate o tardive. (Harten et al. Hereditary angioedema. Diagnostic and treatment errors as systemic lupus erythematosus. Med-Klin. 1999 Jun 15; 94(6): 339-44) La diagnosi è stabilita da bassi livelli di C4 e di C1-INH in presenza di livelli normali di C(1q). (Herrero et al. Familial hereditary angioedema. Digestive manisfestations. ALERGOL-INMUNOL-CLIN. 2000; 15/3 (209-211) La diagnosi ed il trattamento precoce, così come il continuo monitoraggio dei pazienti porta ad una significativa riduzione della mortalità e preclude il verificarsi degli attacchi edematosi. (Farkas et al. On the hereditary angioneurotic edema. LEGE-ARTIS-MED. 1998; 8/1 (22-28) Per distinguere le diverse forme di carenze di C1-INH è necessario determinare la quantità della proteina C1-INH ed il livello di attività funzionale. Sono stati proposti diversi metodi per la determinazione di C1-INH con l’obiettivo di migliorare la diagnosi ed il trattamento: metodo titrimetrico e spettrofotometrico, inibizione dell’attività emolitica del complemento, metodo radioimmunologico, metodo di immunoassorbimento legato all’enzima, etc. (Carreer The C1 inhibitor deficiency. A review. Eur-J-Clin-Chem-Clin-Biochem. 1992 Dec; 30(12): 793-807) I pazienti con angioedema ereditario possono soffrire di dolore addominale tale da provocare interventi chirurgici non necessari. Non è stato stabilito un approccio diagnostico in caso di dolore addominale durante attacchi di angioedema ereditario. L’ecografia addominale è utile per valutare il dolore addominale acuto in questi pazienti al fine di evitare inutili interventi chirurgici. (Sofia et al. Sonographic findings in abdominal hereditary angioedema. J-Clin-Ultrasound. 1999 Nov-Dec; 27(9): 537-40)

Terapia

La gestione dei pazienti con angioedema ereditario consiste innanzitutto nell’evitare i fattori precipitanti, generalmente i traumi. L’infusione di concentrati di C1 inibitore trattati al vapore blocca gli attacchi acuti ed è sicuro ed efficace nella profilassi a lungo termine o nella preparazione per interventi chirurgici o odontoiatrici. Gli adulti con angioedema ereditario rispondono al danazolo, un androgeno sintetico con debole attività virilizzante e lieve attività anabolica. Il farmaco, assunto per os, aumenta i livelli di C1 inibitore di numerose volte e previene gli attacchi. Non è stato raccomandato per l’uso in età pediatrica. (Nelson, Textbook of Pediatrics, XVI Edition) Il trattamento profilattico e/o a lungo termine è effettuato generalmente con antifibrinolitici o con basse dosi di androgeni attenuati; per la terapia a breve termine, o prima di interventi chirurgici o traumatici, vengono usate dosi più alte di questi androgeni o viene impiegato il C1-INH. Nella forma acuta, le misure terapeutiche sono volte a mantenere l’analgesia, la volemia e i livelli di C1-INH. (Herrero et al. Familial hereditary angioedema. Digestive manisfestations. ALERGOL-INMUNOL-CLIN. 2000; 15/3 (209-211) Il plasma fresco congelato può servire come trattamento alternativo alla profilassi a lungo termine se i farmaci usati comunemente (antifibrinolitici, ormoni) non hanno successo o sono controindicati. (Galan et al. Fresh frozen plasma prophylaxis for hereditary angioedema during pregnancy. A case report. J-Reprod-Med. 1996 Jul; 41(7): 541-4)