martedì 27 maggio 2008

AIDS 1: generalità

Epidemia a due velocità

Se ancora c’è chi crede che l’Aids si trasmetta con le zanzare o con la saliva, qualcosa non va. Ormai, infatti, dalla scoperta del virus è passato parecchio tempo, eppure stando all’ultimo Congresso Anlaids appena svoltosi a Rimini, queste convinzioni sussistono, in particolare tra i più giovani. Possibile? Sembrerebbe di sì, anche se le attenuanti non mancano, considerate le poche campagne di informazione effettuate sull’argomento. E questo nonostante i progressi scientifici siano stati ragguardevoli e la situazione dal punto di vista dell’offerta terapeutica non sia mai stata così rosea. L’ultima notizia in materia è stato il recente via libera, da parte del comitato scientifico per l’autorizzazione dei farmaci dell’Agenzia Europea (CHMP), alla pillola che riunisce tre farmaci per la cura dell’AIDS e che si somministra una volta al giorno. Una enorme semplificazione per i pazienti che devono rimanere in terapia a lungo. Ciò nonostante i motivi di allarme non mancano e il Congresso è stata l’occasione per prenderli in esame.

Il virus torna
Gli esperti parlano di una epidemia a due velocità, almeno in Italia. Se, infatti, i casi di Aids complessivamente diminuiscono, le nuove infezioni sembrano in ripresa in varie zone. Quindi, come ha spiegato Giovanni Rezza, dell’Istituto superiore di sanità, mentre per quanto riguarda i casi di AIDS e la mortalità le cose vanno bene, non altrettanto si può dire per l’andamento delle infezioni. Al punto che Fernando Aiuti, presidente di Anlaids dichiara “L’AIDS sta tornando, dobbiamo fermarla in tempo; ci sono poche campagne di informazione e le risorse sono terminate”. Ecco i numeri. Dal 1982 a dicembre 2006 sono stati notificati 57531 casi di AIDS, di cui 1452 nell’ultimo anno. Del totale dei casi diagnosticati il 72,4% era di sesso maschile, l’1,3% in età pediatrica. In totale 35112 (62%) pazienti risultano deceduti. L’età mostra un aumento nel tempo: tra le donne si è passati da una età media alla comparsa della malattia di 28 anni nel 1986 a quasi 40 anni nel 2006, mentre per gli uomini si è passati da circa 30 anni a quasi 44. L’andamento dei tassi d’incidenza si è stabilizzato dal 2002, quanto alla modalità di trasmissione, c’è un aumento di quella per via sessuale. Con solo il 35% dei malati che ha fatto uso di terapie antiretrovirali. Un quadro che sta cambiando perciò. I dati dei sistemi locali di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv rivelano che, dopo un picco verificatosi alla fine degli anni ’80, vi è stata una progressiva diminuzione dei nuovi casi di infezione fino alla fine degli anni ’90. Ora il numero di nuove infezioni si è stabilizzato ed è addirittura in aumento in alcune zone, con il rischio della riattivazione dell’epidemia in varie aree del nostro paese. In più oggi i sieropositivi sono adulti maturi che si infettano attraverso i rapporti sessuali. Qui si chiudono le cattive notizie. E le buone?

Verso l’eradicazione
“Io credo che con i nuovi farmaci antiretrovirali, pensando nel lungo periodo, potremo ricominciare a parlare di eradicazione del virus”. Lo ha detto Adriano Lazzarin della Divisione di Malattie Infettive del San Raffaele di Milano e ha aggiunto “Naturalmente non siamo in condizioni di promettere nulla, ma credo che fra qualche tempo potremo alzare il tiro rispetto agli attuali obiettivi”. Eradicazione perciò è la parola d’ordine. E questo grazie, anche, all’arrivo di alcune nuove classi di farmaci che agiscono sul virus con meccanismi innovativi. Si tratta, come hanno spiegato al Congresso, degli inibitori della integrasi e del recettore CCR5, farmaci che bloccano i meccanismi con cui il virus entra nella cellula, impedendo la replicazione virale. Il loro arrivo sul mercato apre nuove possibilità, anche se la cautela per il futuro è necessaria. Il terreno di lavoro principale, comunque, rimane quello della prevenzione. E lì di strada da fare ce n’è parecchia. Del resto se il virus lo passa la zanzara!

Fonti:
Congresso Anlaids, Rimini 17-20 ottobre 2007

A che prezzo si sopravvive
Il primo caso di AIDS fu diagnosticato nel 1981. Un quarto di secolo esatto, una generazione. Il tempo non è passato invano e, dopo un decennio di aumento ininterrotto dei casi, la tendenza si è invertita (ma negli ultimissimi tempi sembra che una ripresa ci sia), parallelamente sono dimuniti i decessi e, ovviamente, è aumentata la sopravvivenza. C’è un indicatore, però, che è costantemente salito, ed è la spesa per il trattamento. Lo dimostra uno studio statunitense che si è basato sui dati di spesa di Medicaid, il programma pubblico che copre le spese sanitarie di persone e famiglie a basso reddito o che, comunque, rientrano nei requisiti stabiliti a livello statale e federale. Molti i dati recuperati, relativi al periodo che va dal 1991 al 2005, a partire da quello generale: dall’inizio alla fine del periodo, il numero di prescrizioni di antiretroviarli è aumentato di oltre 16 volte, passando da 168914 a 2 milioni nel 1998 e a tre nel 2005, ma la spesa ha fatto di più, moltiplicandosi quasi per 50. In dollari, si è saliti dai 30,6 milioni del 1991 ai 1600 milioni del 2005. Degli antiretrovirali esistono diverse classi: la più vecchia è quella degli inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici (NRTI), gli inibitori delle proteasi (PI), gli inibitori della trascrittasi inversa non nucleosidici (NNRTI) e i più recenti inibitori della fusione (FI). Ovviamente l’elenco non si ferma qui, ben più recentemente sono venuti altri retrovirali, ma lo studio, fermandosi al 2005 considera le quattro classi citate.

Terapie in associazione
Malgrado l’età, la classe che rappresenta la parte maggiore della spesa è quella degli NRTI: il 50,8% del totale pagato da Medicaid per trattare l’HIV, pur non rappresentando la classe con le specialità più costose. La più costosa in assoluto, difatti, è un inibitore di fusione che tocca i 1914 dollari a prescrizione. La spesa, dunque, cresce malgrado il calo delle diagnosi annuali: il top fu toccato nel 1992 con 78000 nuove diagnosi, mentre da allora si è assestato su 40000. I motivi sono diversi e uno è molto positivo, cioè il calo della mortalità, quindi lo spostarsi dell’infezione dll’HIV verso lo spettro delle malattie croniche piuttosto che di quelle a breve decorso. Nella crescita della spesa, peraltro si può individuare un punto nodale: il 1996 quando, essendo disponibile un certo numero di farmaci di classi diverse si impose il ricorso al cosiddetto cocktail di medicinali differenti, che tecnicamente si chiama HAART (highly active antiretroviral therapy). Ciò ha fatto sì che il trattamento per un singolo paziente costi dai 10 ai 15000 dollari l’anno, e nel 2005 le persone colpite erano 1,7 milioni.Però, secondo l’economia spicciola, se i consumi salgono ci dovrebbe essere un spinta almeno alla discesa dei prezzi. Così non è stato per diversi motivi: il primo, ed è intuibile, è che le nuove specialità hanno ottenuto un prezzo di ingresso piuttosto elevato. Partendo dalla classe più vecchia, gli NRTI, nel 1995 la prescrizione del Retrovir costava 180 dollari, mentre quella dei più recenti è via via salita a 400, 600 e 900 dollari. Lo stesso discorso vale per le altre classi di farmaci: il nuovo costa di più e spesso molto di più. La cosa più curiosa è che, sia pure in modo non così cospicuo, è salito anche il costo dei farmaci più datati: il Retrovir, per esempio, ha visto aumentare il costo per prescrizione di più del 10% nel periodo 2000-2005, un altro farmaco più recente è aumentato di oltre il 20%. Nelle altre classi, l’aumento dopo l’ingresso nel mercato ha raggiunto, in un caso, il 60%.

Non si fanno sconti
Insomma, la pressione della domanda è tale che ha fatto saltare i meccanismi che di solito determinano nel tempo la discesa dei prezzi. Del resto, nei paesi industrializzati, di solito a far scendere i prezzi è l’arrivo dei generici. Tra gli antiretrovirali il brevetto è scaduto solo per due molecole, la didanosina e la zidovudina, ma l’arrivo dei generici ha avuto scarso impatto. Nel caso della didanosina i produttori di equivalenti sono quattro, ma tra il prezzo della specialità e il generico corre una decina di dollari su oltre 200, quindi poca cosa. Quanto all’unico generico della zidovudina, costa l’85% del farmaco di marca. Se si pensa che i produttori di generici potrebbero scendere, in linea teorica, è vero, addirittura al 10% del prezzo del farmaco originatore è evidente che il meccanismo non è ancora scattato. Tra l’altro, gli analisti sostengono che per avere reali risparmi bisogna attendere che vi siano almeno due o tre versioni generiche. Evidentemente nel caso della didanosina, almeno fino al 2005, anche la presenza di più produttori non era bastata. Tra l’altro, come spesso accade, anche se non sempre, le prescrizioni si stanno spostando verso i prodotti più recenti, anche perché spesso più efficaci e più tollerati. Lo studio non dà indicazioni su come si possa alleggerire quello rischia di diventare un onere enorme. Anche perché, per usare una frase fatta “il problema è politico”.

Fonti:
Jing Y et al.Utilization and spending trends for antiretroviral medications in the U.S. Medicaid program from 1991 to 2005. AIDS Research and Therapy 2007, 4:22 doi:10.1186/1742-6405-4-22

Il virus non sta a guardare
Un paio di anni fa, una rivista specializzata che si occupa della ricerca sull’AIDS, Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes, pubblicò un lavoro realizzato da ricercatori francesi, che aveva dimostrato un passaggio (switch) del virus dell’immunodeficienza acquisita da una forma a un’altra. Nello specifico, ciò accadeva nei pazienti HIV-positivi in terapia antiretrovirale combinata (HAART) in cui il virus passava dalla forma R5 alla forma X4. La distinzione tra i due tipi di virus dipende dal co-recettore a cui si legano per infettare i linfociti CD4, infatti mentre il CD4 è il recettore comune, il corecettore cambia, il CCR5 e il CCX4 rispettivamente. Lo switch dal virus R5 al virus X4 è temporizzato, il primo compare nelle fasi iniziali dell’infezione, il secondo più tardi, nel 50% dei sieropositivi ed è associato a una progressione della malattia. Motivo per cui diventa anche un elemento di prognosi importante.

Retroguardie in attesa
L’identificazione del virus X4 ha permesso di spiegare perchè, nei pazienti in terapia i livelli di linfociti CD4 fossero bassi nonostante la viremia si tenesse sotto le 50 copie per millilitro, considerata non rilevabile. A spiegare, quindi, perchè pazienti con viremia non rilevabile faticano ad avere una risposta immunitaria oppure improvvisamente hanno dei cali. La comparsa di un virus leggermente diverso ha richiamato l’attenzione del mondo scientifico su una possibile evoluzione del virus in seguito a una pressione selettiva o una deriva genetica successiva a una mutazione, che ha portato alla formazione di una nuova specie di virus. Ma per ora i ricercatori si limitano a definirla una quasispecie ma si domandano se è un tipo di virus che viene sequestrato all’interno di serbatoio per uscire solo successivamente, come una sorta di retroguardia, o se è davvero un’evoluzione dal virus R5. La continua replicazione dell’HIV in riserve cellulari o tissutali infette, di virus latente può contribuire alla recrudescenza virale che segue l’interruzione della terapia antiretrovirale. L’attenzione è stata quindi rivolta ai linfociti CD4 e al tipo di co-recettore che esprimono per esempio è stato osservato che nei neonati e nei bambini predominano linfociti che esprimono il co-recettore CCX4. La stessa cosa accade nel timo, ghiandola in cui si formano i linfociti, il che ha fatto supporre che questa potesse essere la sede di un passaggio critico della patogenesi della malattia.

Riserve da estinguere
Con queste premesse, i ricercatori hanno analizzato tessuti linfonodali e non e campioni di sangue periferico di bambini HIV-positivi, e hanno ottenuto una conferma delle ipotesi. In effetti, i timociti (linfociti presenti nel timo) esprimono in quantità elevata, recettori CD4 e CCX4 creando un ambiente favorevole alla replicazione del virus X4. Per altro la diffusione unidirezionale dei linfociti, compresi quelli infetti dal virus X4, dal timo a tessuti linfonodali secondari per poi entrare nel circolo, spiegherebbe la disseminazione a livello sistemico del virus. Le indagini biomolecolari condotte per valutare il tasso evolutivo dei due tipi di virus, per altro, permettono di escludere che sia in atto un processo evolutivo ma che la comparsa di HIV-X4 sia più legata alla disponibilità di cellule bersaglio. Le evidenze raccolte suggeriscono di spostare o di ampliare la mira delle terapie e di creare nuovi protocolli terapeutici orientati anche verso i virus presenti nel timo dal momento che sembra fungere da serbatoio del virus.

Fonti:
Salemi M et al. Phylodynamics of HIV-1 in Lymphoid and Non-Lymphoid Tissues Reveals a Central Role for the Thymus in Emergence of CXCR4-Using Quasispecies. PLoS ONE. 2007 Sep 26;2(9):e950Delobel P et al. R5 to X4 switch of the predominant HIV-1 population in cellular reservoirs during effective highly active antiretroviral therapy. J Acquir Immune Defic Syndr 38: 382-392, 2005Redazione Nadir. Nei pazienti in HAART accade lo switch dal virus R5 tropico a quello X4 tropico. 24.03.2005 http://www.nadironlus.org/

La castità non è tutto
La prevenzione è l’arma migliore contro l’HIV, lo si dice da decenni e il tempo l’ha dimostrato, e per questo è fondamentale insegnarla ai giovani. Sì ma insegnare che cosa, soprattutto? La domanda è meno oziosa di quanto sembri, perché sull’alternativa tra puntare nelle strategie educative di più sull’astinenza prematrimoniale o di più sul sesso sicuro a cominciare dall’uso del preservativo c’è un confronto serrato. Che è o dovrebbe svolgersi prima di tutto sul piano scientifico-sanitario, mentre viene spesso surclassato da quello politico e morale prevalente: ed è proprio con un approccio “laico” che la questione viene affrontata da lavori sulla rivista PloS Medicine, nei quali si confrontano e valutano scientificamente gli effetti delle due strategie educative rispetto a quello che è poi il vero obiettivo, la diminuzione del rischio di contagio. Si fa riferimento in particolare a un’analisi di autori britannici di studi relativi a interventi che hanno coinvolto 37.700 giovani in Nord America, e si ragiona sull’obiettivo educativo considerato oggi prioritario dal Governo degli Stati Uniti per la salute sessuale e riproduttiva giovanile, cioè l’astinenza prematrimoniale. Le conclusioni danno ragione alle critiche sollevate in primis dagli esperti da un’iniziativa italiana del 2002 degli allora ministri Sirchia e Moratti, una brochure a diffusione scolastica che indicava la castità come la sola vera protezione dall’AIDS.

Prima volta precoce e nozze tardive
C’è da domandarsi se la promozione dell’astinenza prematrimoniale sia un obiettivo realistico di salute, premette l’editoriale, a parte il rischio contagio nelle coppie sposate specie per le donne convolate a nozze presto e infettate da mariti più maturi e navigati. Infatti da un lato l’età dei primi rapporti è scesa e negli ultimi quarant’anni si è stabilizzata nella maggior parte dei paesi sviluppati intorno a 17 anni, dall’altro quella alla quale ci si sposa è salita. Per esempio negli Stati Uniti il 90% dei 25enni è sessualmente attivo e solo il 3% rimanda al matrimonio: il divario è crescente e l’educazione alla castità avrebbe quindi un impatto modesto. Obiezioni etiche e scientifiche sono giunte da Società pediatriche, mediche e di salute pubblica americane contro la promozione della sola astinenza, attuata con interventi nelle scuole che avrebbero prevalso su un’educazione sessuale più completa, cosicché è diminuita anche quella contraccettiva volta a evitare gravidanze indesiderate. Recenti studi hanno mostrato che rimandare sul breve termine la “prima volta” non impatta sulle infezioni sessualmente trasmesse e che iniziative solo pro-castità anche ben studiate falliscono nel ritardare l’iniziazione sessuale o nel ridurre comportamenti a rischio di contrarre l’HIV. Ora la nuova analisi sistematica mostra la superiorità degli approcci educativi comprensivi, che propongono l’astinenza come strategia prioritaria ma incoraggiano anche l’uso del condom e altre cautele (per esempio evitare la promiscuità).

Programmi educativi combinati pagano
Sul totale dei 39 studi selezionati e analizzati dagli autori britannici, su interventi educazionali così concepiti, 23 hanno dimostrato l’efficacia protettiva almeno riguardo a un aspetto. Su 12 trial che includevano la valutazione della frequenza di rapporti sessuali non protetti l’effetto preventivo si è raggiunto in 6; su 21 che consideravano anche il numero di rapporti protetti e non, lo si è ottenuto in 5; su 13 che riscontravano la frequenza dei partner lo si è avuto in 4; su 26 che valutavano anche l’uso del profilattico lo si è ottenuto in 14 e su 19 comprendenti l’età dell’esordio sessuale lo si è raggiunto in 4 (c’è sovrapposizione negli studi). Complessivamente questi programmi che andavano oltre l’astinenza non hanno aumentato il rischio d’infezione giovanile da HIV in nessuno studio. A fronte dell’inefficacia degli interventi solo pro-castità e di risultati come questi , si spingono a dire gli autori, sarebbe prudente riconsiderare l’esclusione dei finanziamenti federali per interventi educativi misti di questo tipo. E le evidenze hanno implicazioni anche al di fuori degli Stati Uniti, nazione che influenza programmi in molti altri paesi. Chi vuol intendere, intenda.

Fonti:
Shari L. Dworkin e John Santelli. Do Abstinence-Plus Interventions Reduce Sexual Risk Behavio among Youth? PloS Medicine September 2007, Volume4, Issue9, 1437-9.

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